Superbrat spegne oggi 56 candeline. Ripercorriamo le partite e gli episodi che lo hanno reso celebre nel bene e nel male, riconoscendogli un posto dorato nel tempio di questo sport
Leggi anche Ma quanto valeva John McEnroe? di Roberto Salerno
Difficile scrivere su qualcuno che si ama, parlare di un sentimento che va oltre qualsiasi razionalità; l’amore per un genio, un genio chiamato John McEnroe. Ancor prima del tennista, era il personaggio ad attirare l’attenzione. La sua ribellione contro il sistema, contro il mondo del tennis antiquato ed elitario. Un vero rivoluzionario. In lui c’erano le luci e le ombre di Caravaggio, la follia delirante di Van Gogh, le nebbie ipnotiche di Jimi Hendrix, la protesta senza (o con?!) una causa di James Dean. Tom Hulce dichiarò di essersi ispirato a lui per interpretare Mozart, nel celebre “Amadeus” di Milos Forman.
Non penso sia esistito ed esisterà mai un giocatore con più talento o genio. Potreste dire Laver (il suo idolo) o Federer. Certo, grandissimi, più vincenti, più completi, ma Mac era diverso, era ed è un artista, ha inventato colpi che nessuno aveva mai concepito, che nessuno aveva mai visto.
Già troppo si è detto del suo servizio con le spalle alla rete e i piedi paralleli alla linea di fondo. Le sue traiettorie mancine, slice, liftate, esterne e centrali, chirurgiche, come un lancio nel baseball. Le sue risposte dentro il campo e il gioco da fondo ping-pong, anticipatissimo, con effetto fionda grazie alla sua incordatura bassissima (18 kg). I cross strettissimi che solo i mancini riescono ad ottenere, i colpi piatti intervallati a quelli tagliatissimi, lunghi o corti, mai due colpi di seguito uguali. John McEnroe è stato il più grande giocatore di volo. Volée (e demi-volée) sublimi, di dritto e di rovescio, alte e basse, profonde o smorzate. Eleganti ed efficaci. “Se fossi un po’ più gay di quello che sono, mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volée di McEnroe”, così disse Gianni Clerici durante una telecronaca.
Londra 1977, i Sex Pistols cantano “Anarchy in the U.K.”. A Wimbledon un diciottenne newyorkese, anarchico, entra nel “Tempio del Tennis” dalle qualificazioni, arrivando alla semifinale. Perderà in quattro set da Connors. Sarà la sua presentazione al mondo. Poi, dopo il titolo universitario NCAA per Stanford, arrivano i primi successi importanti. La Coppa Davis, il Master del ’78, gli U.S. Open ’79.
Il 1980 è l’anno della grande finale con Borg a Wimbledon. Una delle più belle partite di sempre, forse il più emozionante set della storia, il quarto, vinto da SuperMac al tie-break (18-16), con una serie di match point (sette) e set point (sei) annullati da entrambi. John perse quella finale, 8-6 al quinto ma, come gli capiterà in seguito, sono proprio le cocenti sconfitte ad averlo reso immortale. Così come a Wimbledon ’82 con Connors, quando tutti lo davano favorito e arrivò a due punti dalla vittoria. Perse contro l’agonismo e la volontà sovrumana di Jimbo. Poi il Roland Garros ’84. Il dolore più grande. Zero sconfitte fino a quella partita. Contro Lendl va due set a zero, poi un break di vantaggio nel quarto. Il più bel tennis d’attacco mai visto sulla terra battuta. SuperBrat perderà 7-5 al quinto set, contro un giocatore che ha sempre detestato, ma soprattutto contro i suoi stessi demoni, il suo fisico, la sua psiche, contro se stesso! Molto probabilmente se avesse vinto il suo posto nella storia del tennis sarebbe diverso. Il 1984 rimarrà il suo miglior anno con 82 vittorie e sole 3 sconfitte. Un record avvicinato ma mai superato.
Sicuramente 77 tornei vinti, di cui 7 titoli del Grande Slam, 3 Wimbledon (’81, ’83, ’84) e 4 U.S. Open (’79, ’80, ’81, ’84), 3 Masters (’78, ’83, ’84) e 4 stagioni consecutive come numero uno a fine anno, dal 1981 al 1984, lo rendono tra i più grandi tennisti della storia (ma non tra i più vincenti come numero di Slam). Non vincerà mai il Roland Garros e l’Australian Open, ma dobbiamo considerare che in quegli anni quest’ultimo era un torneo secondario. Nei suoi anni d’oro, John vi partecipò solo nel 1983 e nel 1985. Forse il suo record sarebbe diverso se l’allora Slam di fine stagione avesse avuto il peso che ha oggi. Valore che invece avevano le Finali WCT di Dallas, che vinse 5 volte (’79, ’81, ’83, ’84, ’89), e la Coppa Davis, a cui Mac era molto legato. Quel legame con la propria nazione e la propria squadra che mantenne fino al suo ritiro nel 1992. La vinse 5 volte (’78, ’79, ’81, ’82, ’92).
Forse è pure inutile ricordare che giocò il doppio contemporaneamente al singolare, vincendo 72 titoli (71 in doppio più 1 nel doppio misto), 10 Slam (5 Wimbledon, 4 U.S. Open, 1 Roland Garros nel doppio misto) e 7 Masters. Fu numero uno sia in singolare sia in doppio. “La migliore coppia di doppisti al mondo è John McEnroe e chiunque altro”, disse Peter Fleming, suo compagno storico in campo. Tenendo conto dei tornei di singolare e di doppio, con 149 titoli, è il giocatore più vincente della storia. Quanto avrebbe vinto nel singolare se non avesse giocato anche il doppio?
Si parla sempre delle grandi rivalità. Lui ne ha vissute ben tre. Con Bjorn Borg (7 vittorie e 7 sconfitte), il rivale che più ammirava. Le loro partite sono passate alla storia, per il contrasto di stili e personalità. Il ghiaccio contro la lava. Non dobbiamo dimenticarci che l’Orso scandinavo si ritirò dopo le cocenti sconfitte a Wimbledon e New York del 1981. Con Jimmy Connors (20-14), giocatore diverso per stile ma simile per personalità e agonismo. La finale di Wimbledon ’84 vinta da Mac rappresenta la perfezione, un’ora e venti minuti di soli vincenti. Con Ivan Lendl (21-15 per Lendl, ma 12-14 fino al 1985), il simbolo del nuovo tennis, basato sulle racchette in grafite, la preparazione atletica e la potenza dei colpi.
Per stessa ammissione di Mac, “Ivan il Terribile” fu l’avversario più ostico. Vedeva la loro sfida come il bene contro il male, il mondo libero occidentale contro il comunismo dell’est (lo stesso Lendl fuggì da quella dittatura), l’uomo contro la macchina. Lui, “The Genius”, il simbolo del tennis con la racchetta di legno, fatto di tocchi e geometrie, doveva abdicare a un nuovo modo di fare e intendere questo sport. Rimane comunque l’unico numero uno con le racchette sia in legno sia in grafite.
John McEnroe come detto non è stato solo un tennista ma anche un personaggio, dentro e fuori dal campo. Dentro soprattutto. Celebri le sue sfuriate, i suoi “You cannot be serious” sparati agli arbitri e divenuti poi il titolo della sua autobiografia. Curioso pensare che alla fin fine pur con penalty point qua e là, gli arbitri gliela abbiano sempre perdonata in nome dello spettacolo che regalava in campo e della sua capacità di esaltare le folle. Sempre, tranne una volta: 1990, Australian Open, quarto round, di fronte allo svedese Pernfors. Lì SuperBrat venne squalificato dal campo per l’unica volta in carriera, un incidente che valeva più di una squalifica, valeva l’affermazione che McEnroe era in piena parabola discendente e non era più così speciale da permettersi i suoi celebri inalberi. Certo determinante fu anche un cambio nelle regole, che proprio da quel torneo prevedevano la squalifica al terzo avvertimento anziché al quarto. Una regola che ovviamente John non aveva consultato.
McEnroe stesso è tornato a commentare l’episodio 25 anni dopo, durante i recenti Open di Melbourne dichiarando “Sono come un dinosauro. Chi mai oggi può essere squalificato perché perde le staffe?”. Certamente è più difficile nell’era del Falco, ma a una fetta del pubblico oggi mancano proprio le incandescenze di un McEnroe, tantoché il nativo di Wiesbaden è il tennista più acclamato nel senior tour non solo per i suoi tocchi fini e le magie con la racchetta, ma anche per la speranza che prima o poi durante il match si produca in una delle sue celebri tirate. “Son finito ad essere pagato di più per qualcosa per cui una volta mi multavano” ha concluso nella stessa intervista il newyorkese.
Da quel 1990 ancora qualche anno con un’ultima Davis e la semifinale a Wimbledon nel 1992 quindi il ritiro, la famiglia, la musica rock, una galleria d’arte, l’esperienza televisiva. Poi di nuovo il tennis, con il senior tour. Tutti amano e sono legati a giocatori, epoche e stili diversi. E’ sempre difficile fare paragoni e classifiche, soprattutto quando si analizzano periodi storici differenti. Ci innamoriamo di qualcuno non per i suoi pregi, sarebbe troppo facile, scontato, forse noioso. Amiamo qualcuno per i suoi difetti, che lo rendono unico ai nostri occhi. Forse non li sopportiamo quei difetti, ma qualcosa d’irrazionale, l’amore appunto, ci attrae inevitabilmente verso di loro. Questa è la sintesi dell’amore verso questo grande Peter Pan. Ci sono stati e forse ci saranno giocatori più forti e vincenti, ma John McEnroe rimane unico, nessuno sarà mai come lui. Il più grande artista e genio che abbia mai calcato un campo da tennis. Grazie ancora John, per averci fatto sognare, per tutte le emozioni che ci hai regalato. Grazie.
Francesco Amendolito