Prima di tutto, evitiamo di dare troppo fiato alle trombe, di iniziare già da subito a investire metri cubi di incenso e di gridare al predestinato: a diciotto anni ha fatto semifinale in un 500, encomiabile. Gli ultimi prima di lui: Alexander Zverev, con tutte le probabilità futuro vincitore Slam e numero uno; Borna Coric, ex leader Juniores che al momento sembra si stia perdendo nel definitivo (ma poi quanto dura?) passaggio ai professionisti. Quindi d’accordo, è bravo eccome: ma non cadiamo nell’ormai consueto burrone del sensazionalismo facile. Casper Ruud avrà bisogno di conferme, numerose, perché si possa affermare di avere qualcosa di concreto di cui discutere; non se ne può più degli entusiasmi da discount e delle certezze friabili. A Rio il diciottenne norvegese ha avuto nel complesso un tabellone mediocre: Dutra Silva, Carballes Baena, Monteiro, tutti giocatori da Challenger fino al primo vero scoglio importante, Pablo Carreno Busta, contro il quale si è fatto aggredire dalla tensione sul più bello. Ruud è arrivato a match point dopo aver dominato con margine il primo set, ma una volta spedito largo quello che poteva essere il colpo conclusivo ha messo l’interruttore su off: la maggior esperienza di Carreno (che di anni ne ha 25 ma in Brasile disputerà la quinta finale in carriera, con bilancio 2-2) è venuta fuori nel cammino sul cornicione, sport nel quale Casper avrà ancora di che imparare. Niente benedizioni quindi, ma ci sono anche dettagli innegabili e lampanti: la grinta e il carattere di Ruud sono senz’altro anomali per un ragazzo della sua età, superiori anche a chi quasi lo doppia sulla carta d’identità. Alla sua tenacia si abbina una notevolissima condizione atletica, che gli ha permesso di resistere alle condizioni di estrema umidità sudamericana: lavoro di piedi e voglia di emergere possono essere delle buone basi, ma il tennis vero deve ancora venire fuori. Il suo curriculum inizia però a far alzare qualche sopracciglio: figlio di Christian, il norvegese meglio classificato di sempre, numero 39 nel ’95, ha vinto il primo Challenger a cui abbia mai partecipato, lo scorso anno sulla terra gialla di Siviglia, diventando il quarto più giovane a trionfare nella categoria cadetta (meglio di lui Michael Chang, Richard Gasquet e Jonathan Stark). Che non venga sopraffatto dalle aspettative che un circuito sempre più alla disperata ricerca del prossimo fenomeno cercherà di inchiodargli alla schiena.
Postilla azzurra in terra brasiliana: Fabio Fognini non va aggredito o giudicato, quanto meno non sarà questo il caso. Se ne sono lette e sentite di ogni sul suo conto, sopratutto dopo episodi come quelli visti durante la settimana, con la sua racchetta che finisce incastrata nel cartellone pubblicitaria dopo un violento lancio. Va però detto che per chi di tennis soffre e gioisce, chi davvero ci mette passione anche soltanto nel rincorrere i proprio beniamini in streaming, è un dolore genuino vedere lampi di follia squarciare quello che altrimenti sarebbe un quadro di grandissimo pregio. Lucio Fontana ci ha costruito una carriera con i tagli nelle tele: in quelle potevano evincersi paura, rabbia, curiosità, tutti sentimenti di chi con quel graffio voleva dimostrare che un gesto netto ma unico potrebbe trasmettere infiniti punti di vista (o magari tutt’altro, è arte contemporanea). Il ligure sui suoi quadri pare invece camminarci sbadatamente, come se non si rendesse conto del valore dei suoi lavori. Di nuovo, non si vuole giudicare, ma una cosa si potrà ripetere fino allo sfinimento: è un peccato. Tutto qui.
Ha vinto ancora Jo-Wilfried Tsonga. Dopo il successo di Rotterdam della scorsa settimana, stavolta tra le mura amiche di Marsiglia, il franco-congolese ha dimostrato ulteriormente il momento di grande fiducia e serenità. Delle sue affermazioni abbiamo parlato sette giorni fa; su superfici rapide, di cui pare ci sarà abbondanza, potrà senz’altro confermarsi mina vagante in qualsiasi torneo. Certo sarebbe rischioso pronosticare un suo ritorno in una finale Slam, dopo quella disputata in Australia ormai otto anni fa, ma il suo carattere positivo e spesso uterino verso il pubblico potrebbe aiutarlo a sfruttare le condizioni psicologiche di cui sembra stia godendo ultimamente, già a partire dai Masters 1000 americani: un buco di tabellone potrebbe rivelarsi una ghiotta opportunità per cavalcare quello che lui ha definito come l’ultimo periodo di carriera, supportato dall’entusiasmo dei tifosi a cui è simpatico in qualsiasi parte del mondo. In finale ha battuto Lucas Pouille, nel torneo che lo scorso anno fu vinto da Nick Kyrgios: dicevamo dei facili entusiasmi?
Per restare in tema, anzi per rivolgerci proprio ad un professore della materia: a Delray Beach si è assistito ad un pietoso spettacolo con Bernard Tomic come attore protagonista, regista e sceneggiatore (stanotte gli Oscars, non per altro). L’australiano ha letteralmente smesso di giocare, rinunciando a rincorrere la palla e colpendo dopo aver vinto il primo parziale contro Steve Darcis, che non si è fatto pregare e ha portato a casa l’incontro. La differenza è proprio questa, sperando che Ruud ne diventi consapevole: il belga ne ha passate di tutti i colori, infortuni, assenze dai campi durate mesi, poi la Davis da eroe fino in finale persa con l’imbattibile Murray. La vittoria con Nadal a Wimbledon e di nuovo il miracolo con la Germania di quest’anno: è uno che per una singola palla sputerebbe sangue e sacrifici, mentre Tomic è cresciuto nella bambagia di chi ha sempre avuto le stimmate del nuovo fenomeno. “A ventitrè anni ho già quattro milioni in banca, non mi interessa l’impegno”, detto da chi già ad inizio anno chiacchierava con l’arbitro e ammetteva che “la perdo apposta, a Melbourne ho avuto un buon sorteggio, preferisco stare riposato”. Chiedesse a del Potro cosa vuol dire rinunciare di proposito ad un incontro, dopo operazioni e anni lontani dal tenni giocato: l’argentino è tornato alle competizioni in Florida, arrendendosi in semifinale a Milos Raonic. La sofferenza porta istinto di sopravvivenza, il vizio trascina nell’indolenza: e il divario tra Bernard e i suoi preannunciati successi rimarrà largo, sempre, finché noncapirà cosa vuol dire vivere per la vittoria. Probabilmente mai.
Nuovo volto in top 10, al femminile: Elina Svitolina ha infatti sollevato il suo quinto pezzo di cristalleria, sedendosi sul trono di Dubai. L’ucraina rompe così il muro del gotha, dimostrando che il periodo di ottima condizione iniziato lo scorso anno non è affatto un caso: un titolo e due finali nel 2016, già un alloro quest’anno a Taiwan. Un tennis non straordinario ma molto solido, con due ottimi colpi a rimbalzo: poco di più, certamente non adatto a rimanere tra le stelle troppo a lungo, ma sicuramente un posizione non demeritata visti gli standard che sta mantenendo. In finale si arresa è Caroline Wozniacki, alla sua seconda sconfitta consecutiva all’ultimo atto, dopo quella con Pliskova a Doha. Ha fatto sicuramente più scalpore l’intervista che Garbine Muguruza ha concesso a Marca: parlando a trecentosessanta gradi, la spagnola di origine venezuelana non ha nascosto una posizione piuttosto drastica e chiusa nei confronti delle sue colleghe. Lei che già in passato aveva affermato che “non esistono amicizie nel tour, la maggior parte di queste è falsa”, stavolta ha dichiarato che il ritorno di Maria Sharapova nel circuito, previsto per aprile, di fatto non interessa a nessuna delle altre tenniste. Addirittura ha detto che non si ricorda nulla della siberiana. Strano, in tre confronti diretti ha sempre vinto Masha, inclusi i quarti di finale del Roland Garros 2014 in cui chiuse con un sonoro 6-1 nel set decisivo: non è che brucia ancora un po’, piuttosto?