Nel giorno in cui Rafa Nadal perde un game e Novak Djokovic invece due set, e sono proprio curioso di vedere se Bet365 cambierà le sue quote sui favoriti del Roland Garros rispetto a ieri – mentre scrivo non le ho viste, ma a pubblicazione del pezzo dovreste trovarle nel consueto spazio relegato fra le ultim’ora – e nell’immediata vigilia di due match che più degli altri mi incuriosisce seguire, Fognini contro Wawrinka e la rivincita della finale olimpica Murray-del Potro… che però mi attirerebbe di più se si giocasse sull’erba o sul cemento, stante il rovescio monomane dell’argentino, voglio tornare un attimo sul caso Margaret Court ed eventuale cambio di nome al terzo campo di Melbourne. Lo pretende, ad alta voce, un movimento, quasi una sollevazione di tennisti e soprattutto tenniste (più aggressive, ho notato in questi giorni a Parigi). Ne ho scritto ieri. E il mio articolo – come è giusto che sia – ha provocato un gran numero di consensi e dissensi. Francamente non ho contato se fossero più i primi o i secondi. Ho semmai relativizzato, perché per quanto siano importanti per me e per qualunque sito che si rispetti i post dei lettori– non si può sostenere oggi che l’interazione non abbia un suo peso – il rapporto fra i lettori e i post è di solito su Ubitennis 30 a 1: significa che per 30.000 lettori ce ne sono mille che commentano. A questi mille va dato il peso che meritano. La dovuta riconoscenza per contribuire alla vivacità e all’unicità del sito, dal momento che sotto questo profilo gli altri siti distano oggettivamente anni luce sotto il profilo dell’interazione autori-lettori, ma anche la considerazione che una maggioranza silenziosa non merita meno rispetto di una minoranza più estroversa, loquace e talvolta “aggressiva”, se mi consentite il termine.
Tutto si pubblica, opinioni pro e contro, apprezzamenti e critiche nei confronti dei vari autori degli articoli, quelli del sottoscritto inclusi, salvo commenti beceri che purtroppo in tali casi spuntano un po’ ovunque, fra i commenti qui e fuori di qui. Ho visto affiorare sul caso Margaret Court e le proposte di chi vorrebbe cambiare il nome al terzo campo più importante dell’Australian Open, qua e là scritti privi di minimo equilibrio e permeati da una discreta (e anche molta) dose di presunzione ed egocentrismo. Far del buon giornalismo, credibile, non è facile come può sembrare, al colto come all’inclita. Non si spegnerà mai facilmente il dibattito sul seguente quesito: un grande campione (o campionessa) di un qualsiasi sport, che abbia meritato di essere onorato addirittura in vita con l’attribuzione di uno stadio, di un campo per i suoi straordinari risultati – cioè dati oggettivi – deve poi riscuotere anche perenne unanimità di consensi per le opinioni espresse fino alla fine dei suoi giorni in campo politico, religioso, etico? Quel grande indiscusso campione dovrà poi guardarsi dall’ assumere sempre posizioni controcorrente, siano esse rivoluzionarie oppure restauratrici, forti e financo iper-discutibili, per non rischiare di venire travolto da correnti di pensiero che – più o meno diffuse, in maggioranza o in minoranza, politically correct o meno – saranno comunque inevitabilmente frutto di ideologie e pensieri soggettivi? La storia dimostra, con l’evoluzione del pensiero, che la Verità assoluta e immodificabile nel tempo, il Verbo, quando sono affidati agli essere umani, a diverse civiltà, sono mutevoli, come i principi etici. Scagli la prima pietra chi non ha mai cambiato idea su questioni di principio.
Finalmente, e al di fuori del tennis, proprio una legge italiana e una legge fascista – ironia della sorte – emanata nel 1927 avrebbe risolto ogni diatriba se fosse stata universalmente applicata. Quella legge, la n. 1188 del 23 giugno 1927 diceva, anzi dice, che nessuna strada, piazza, monumento, targa, lapide o altri ricordi permanenti possono essere dedicati a persone che siano decedute da meno di dieci anni. Ci sono state ragioni storiche, politiche, per deliberarla a quel modo. Anche se poi state introdotte le solite eccezionali (e deprecabili) autorizzazioni che alcune autorità (prefetti, sindaci) in circostanze davvero straordinarie hanno il potere di implementare. È chiaro che se una legge del genere fosse universale non sarebbe mai nata la Rod Laver Arena e la Margaret Court Arena a Melbourne, la Pista Rafa Nadal a Barcellona, il “Pietrangeli”al Foro Italico, il “Guga Kuerten” in Brasile, il “Pat Rafter Center” a Brisbane, il Bille Jean King National Tennis Center a Flushing Meadows. Se nessuno di queste persone, prima di Margaret Court in questi giorni, ha mai suscitato la minima discussione sul suo diritto a mantenere il proprio nome ad uno stadio o a un campo… penso che in fondo sia stata una gran fortuna. Se domani a una di quelle desse di volta il cervello, e facesse o dicesse cose pazzesche, dopo essere stato un grande in tutti i sensi per 70 anni della propria vita? Oppure, vi faccio un altro esempio: vi immaginate se Paolo Galgani avesse pensato di battezzare 35 anni fa il centrale del Foro Italico Adriano Panatta, così come Angelo Binaghi è riuscito a nominare l’ex centrale del Foro Italico “il Pietrangeli” nel nostro Paese dei Balocchi?
Lo chiamo così, come quello di Pinocchio, perché quella legge è ancora in vigore ma da noi “passata la festa gabbato lo santo”, un escamotage per aggirare qualsiasi regola lo troviamo sempre. La si sarebbe trovata anche per “togliere” a Panatta il nome dello stadio in nome di qualche censura politically correct. Non necessariamente una condanna di peculato, una frode fiscale, o peggio una truffa… al buon nome della federtennis per una questione di onestà intellettuale. (sapeste quante volte ho sentito pronunciare quella frase ai nostri politici e dirigenti, sportivi e non!). Kuerten ha avuto problemi con il fisco, ma pare ne sia uscito indenne. Ma se un domani uno dei succitati campioni in vita avesse problemi di droga, di mafia, di malaffare, di violenza – tipo O.J. Simpson – più ancora che per aver espresso opinioni esecrabili, non sarebbe imbarazzante per tutti? E quale campione vorrebbe succedere domani a Margaret Court perché condannata per ignominia dal… pubblico ludibrio di una pur massiccia vociante corrente di pensiero? Ho letto il nome di Evonne Goolagong, grande tennista, ottima persona e aborigena. Ma se si proponesse il cambio in corsa, cioè in vita, ebbene se io fossi Evonne non accetterei mai quell’onorificenza, nemmeno se il reverendo anglicano Margaret Court (che sospetto abbia dedicato se stessa a centinaia di opere di bene assai meno pubblicizzate delle sue recenti parole) fosse la mia peggior nemica. Quante di quelle persone che oggi sembrano pronte a lapidarla sanno quanto bene può avere fatto nella sua vita pastorale una campionessa come Margaret Court, quella che ha vinto più Slam di tutti, che anziché godersi i suoi agi, la sua popolarità, ha speso la propria vita nella cura del prossimo?
Forse quello che alcuni lettori critici nei miei confronti, hanno considerato “buonismo”, è nato in realtà dalla mia naturale propensione a resistere alla tentazione di accodarmi acriticamente alle pulsioni troppo spesso (non dico sempre, attenzione!) demagogiche che partono da gruppi che non mi convincono proprio per l’eccessiva foga con cui si scagliano compatti su un argomento emanando sentenze più o meno giustizialiste. L’errore – lo ribadisco – è attribuire nomi di stadi, di campi, e altro, a uomini e donne in vita. Solo la storia, come la santificazione di un grande uomo, può dire se un essere umano meritasse quell’onorificenza per quello che seminato nel corso della sua vita. Ai posteri l’ardua sentenza, scriveva qualcuno più bravo dei pennaioli di oggi, non ai contemporanei che si ergono a giudici su fatti, o peggio ancora opinioni (perché sia chiaro che la Court non ha commesso alcun fatto…altro che, mi assicurano, fatti generosissimi verso le comunità di cui si è occupata) di cui non conoscono bene né gli antefatti, né il vissuto. La Margaret Court Arena è stata battezzata così nel 2003. Nessuno sa se nel 2018 si chiamerà ancor così. Come ho scritto ieri, io fortemente ne dubito. Ma non sono sicuro che sia la cosa più giusta da fare. Forse sono una voce fuori dal coro. E credo di poter esprimere liberamente la mia opinione, anche se capisco bene che uno stadio e il nome ad esso rappresenta anche un simbolo. Ma un simbolo di sport o un simbolo di persona che deve raccogliere attorno a sé unanimità di consensi vita natural durante, anziché post mortem (quando il giudizio sarebbe più complessivo)? Avrei voluto, inizialmente, scrivere anche di Nadal, di Djokovic, di Fognini e Wawrinka, ma il polpastrello mi ha preso il raptus e… mi scuso. Ne avremo tempo, il torneo dura ancora 9 giorni. Abbiate pazienza.