Probabilmente, il logo da t-shirt più popolare, diffuso e conosciuto in qualsiasi angolo del mondo è il celeberrimo “I love New York”, con cuore rosso al posto di “love”. Non è difficile capirne le ragioni, dopo aver trascorso qualche giorno in giro per la “grande mela”: questa città è semplicemente impossibile da definire, perchè comprende assolutamente tutto. “Streets” e “avenues” nel mezzo di grattacieli infiniti in vetro e cemento, dove puoi andare a bere un aperitivo nei lounge-bar di alberghi tanto immensi da avere ascensori che ti portano su terrazze a trenta piani di altezza, che però si affacciano sulla hall interna, perchè la stessa è un immenso ambiente chiuso alto centoventi metri, roba da far formare le nuvole indoor.
Oppure, e basta girare l’angolo, ti ritrovi in stradine laterali tranquillissime, con le tipiche palazzine di tre piani con i mattoni rossi a vista, le scale esterne, alberelli e aiuole, il pub irlandese in fondo, e sembra Dublino negli anni ’70. In mezzo a gente che descrivere come “di tutti i tipi” è a dir poco riduttivo, ragazzi di colore che improvvisano hip-hop, “yuppies” metropolitani frettolosi e indaffarati, quelli che fanno jogging a tutte le ore, l’evangelico a centro marciapiede che ti ammonisce perchè “The end is nigh” e devi espiare i tuoi peccati, e i poliziotti, e i portieri dei palazzi con le mostrine e i bottoni d’oro, e i taxi gialli e i clacson. Avanti così, senza sosta, letteralmente ridefinendo il concetto di “melting pot”, con la costante e giustificata sensazione di stare nel vero centro del pianeta.
Che una città-universo del genere venga “amata” sulle magliette di mezzo mondo, insomma, è perfettamente comprensibile. Ebbene, c’è una persona, uno sportivo, un tennista, che – forse unico tra tutti – può incredibilmente vantarsi dell’esatto contrario: New York, ma proprio tutta New York, lo ama alla follia, da almeno trentacinque anni, e questo affetto non accenna a diminuire. Il suo nome è John Patrick McEnroe, origini irlandesi, cresciuto nel Queens, newyorkese fino nel midollo, leggenda assoluta del tennis.
Al campo 8, l’ultimo prima dei cantieri con i lavori in corso per il nuovo grandstand, era schedulato l’allenamento di John Isner. La mia idea era di andare a vedere il bombardiere yankee in azione, perchè come sempre sul cemento dell’estate americana sta giocando molto bene, ed è in rotta di collisione agli ottavi di finale con Roger Federer. Arrivo lì, e trovo almeno cento persone intorno a quello che è un dei “courts” più defilati dell’intero impianto. Non solo, ma sento anche grida di incitamento, risate allegre, accenni di coro “go go go U.S.A”, e davvero non capisco. E poi vedo chi è lo sparring di “Long John”. Mamma mia.
Mi perdoneranno, spero, gli utenti più giovani, quelli della “generazione Fedal”, ma questa puntata della rubrica ha assai poco di tecnico, e molto di nostalgico. Mi sembra quasi strano farlo, ma è giusto che io descriva John McEnroe come giocatore, non tutti sono cresciuti con il tennis anni ’80. Classe 1959, mancino, rovescio a una mano, attaccante puro a tutto campo, impugnatura eastern di dritto e continental tendente alla eastern di rovescio. Ecco, con la tecnica ho finito. Oltre a questo, il più clamoroso talento manuale che la storia del tennis abbia mai visto, niente di più, niente di meno. Piazzare la palla “con le mani” non in qualsiasi zona del campo, ma in qualsiasi centimetro del campo, con tagli di tutti i tipi e rotazioni imprevedibili, al volo, di controbalzo, in anticipo, con il servizio, questo era quello che faceva McEnroe, se vi pare poco.
Ovviamente la partitella di allenamento si è svolta secondo schemi prefissati, per esempio kick esterno di “Long John” e affondo dall’altro lato, niente contropiede, niente palle corte (di Isner, Mac le faceva eccome), ma che spettacolo vedere l’azione di timing purissimo, senza margine nè top-spin, cose impensabili al giorno d’oggi, con cui un giocatore che impugna la racchetta in un modo ormai dimenticato era comunque capace di salire in anticipo sui colpi, e tirando giù delle pallate mica da poco. E il festival di slice perfetti, di tocchi sottorete, di curve esterne con la battuta: sublime.
A sottolineare tutto questo, un continuo interagire con la gente a bordocampo, che era assolutamente eterogenea, giacca e cravatta accanto a bermuda e infradito, abitini estivi di gran firma e abbigliamento da rapper nero, tutti accomunati dal semplice piacere di vedere una leggenda della loro città giocare sui campi di casa sua. “C’mon, Johnny Mac!” gridava la signora latina di mezza età in pareo a fiori, sorridendo al manager in doppiopetto, con tre cellulari e la valigetta, vicino a lei, per poi scambiarsi un “high five” con lui.
Poche ore dopo, durante il grande match in night-session tra Fognini e Nadal, è bastato che venisse inquadrato sui maxischermi il box della ESPN, dove Johnny Mac commentava la partita, perchè le ventimila persone che gremivano l’Arthur Ashe Stadium esplodessero all’unisinono in una standing ovation da brividi.
I love New York, and New York loves John McEnroe.
La magia senza tempo del tennis, indimenticabile.
Gli (s)punti tecnici precedenti:
– Grigor Dimitrov, specchio specchio delle mie brame
– La reattività frenetica di Camila Giorgi
– Il servizio estremo di Ivo Karlovic