Non è facile decidere che cosa raccontare degli US Open 2015, un torneo memorabile per il tennis femminile. Forse mi manca la necessaria capacità di sintesi, ma faccio davvero fatica a contenere nello spazio di un articolo tutto quanto meriterebbe. Tanto che anticipo sin da ora che martedì prossimo ritornerò ad occuparmene con un approfondimento del match tra Serena Williams e Roberta Vinci.
Perchè gli US Open femminili non sono stati uno Slam qualsiasi, e non solo per le Italiane? Perché solitamente il tennis ha il calendario scandito dai quattro Major, ma questa volta storie e vicende di durata superiore hanno vissuto a New York il loro spettacolare epilogo.
1. La fine della corsa al Grande Slam
Dopo oltre un quarto di secolo (1988) si ripresentava per una giocatrice la possibilità di raggiungere il Grande Slam. Oggi si deve specificare: “calendar year Grand Slam” perché sono stati inventati dei surrogati (di valore più o meno significativo) che però, secondo me, non possono essere paragonati all’originale. E se qualcuno aveva dei dubbi sul perché, penso lo abbia capito seguendo giorno dopo giorno il torneo di Serena: il meccanismo del vero Grande Slam è una specie di crescendo infernale, una sequenza di eventi che obbliga la protagonista a subire una pressione che aumenta sino al limite della sostenibilità.
Già dopo sette partite, quelle australiane, si identifica un’unica possibile candidata. Se per caso la prescelta riesce a vincere a Parigi, il discorso comincia a farsi serio. E se poi resiste anche a Londra, ecco allora che l’attenzione dei media, degli appassionati, del mondo tennistico intero, si concentra ossessivamente su un unico concetto. Un martellamento al quale è impossibile sfuggire, che agli US Open si associa al conto alla rovescia delle partite che mancano per arrivare all’apoteosi.
E dato che nel tennis più si passano turni più si ha probabilità di trovare un’avversaria forte, in forma, in fiducia, si capisce come il tutto produca una situazione di stress mostruosa.
Che la candidata si chiamasse “Serena” è apparso paradossale soprattutto per gli italiani, che ben conoscono il significato della parola, e che alla fine hanno rubato la scena alla prescelta.
Williams in questa stagione ha mostrato un dominio nei confronti delle avversarie come molto raramente era accaduto prima. Eppure non è bastato. Logorata psicologicamente, è caduta al penultimo ostacolo.
Una sequenza identica a quella del 1984 vissuta da Martina Navratilova. Anche Martina, protagonista di una stagione assolutamente dominante (una sola sconfitta a gennaio nel torneo di Oakland da Mandlikova) era caduta nel quarto Slam, in Australia (che allora era l’ultimo in calendario e si disputava in novembre).
Anche quella volta era caduta in semifinale, per mano di Helena Sukova. E anche quella volta la favorita aveva vinto nettamente il primo set prima di crollare perdendo gli ultimi due: 6-1, 3-6, 5-7 il risultato di allora. 6-2, 4-6, 4-6, la sconfitta subita da Serena pochi giorni fa.
Nel 1984 Navratilova aveva 28 anni (compiuti il 18 ottobre). Serena compirà 34 anni tra pochi giorni (26 settembre). L’ultima a riuscire ad ottenere il Grande Slam è stata Steffi Graf, nel 1988, a 19 anni. Mi viene da pensare che l’età sia un fattore importante, e che in questi casi più si è giovani più si è incoscienti, e meno si sente la pressione. Williams a quasi 34 anni era forse troppo consapevole del valore enorme dell’impresa per non rimanerne schiacciata.
2. La conclusione della carriera di Flavia Pennetta
E così, alla fine, la scena predisposta per Serena Williams è stata occupata dalle giocatrici italiane. Un successo imprevedibile e sorprendente ma direi del tutto legittimo, specie se si considera che le due finaliste hanno sconfitto tre delle prime quattro giocatrici del mondo (Williams, Halep, Kvitova) e che l’unica che non hanno incontrato non era al via per infortunio (Sharapova).
Come ho già detto, sulla partita di Roberta Vinci conto di tornare martedì prossimo, per cui oggi mi limito a dire che con quella vittoria Roberta ha tolto ogni argomento ai suoi detrattori, che avevano esclusivamente sottolineato come fosse approdata al match contro Serena senza aver affrontato teste di serie, usufruendo in più anche del ritiro della sfortunatissima Bouchard. Dati assolutamente inconfutabili, solo che certi giudizi espressi come sentenze andrebbero pronunciati a torneo finito; per cui chi si era affrettato a bollare Vinci come una specie di intrusa delle semifinali, una sicura vittima sacrificale arrivata sin lì solo per fortuna, ha mostrato quanto meno un po’ troppa precipitazione.
Il match tra Vinci e Williams ha assunto un valore storico, visto che sicuramente verrà citato per decenni (esattamente come ho fatto qui con quello tra Navratilova e Sukova), ma in Italia si parlerà altrettanto a lungo di questo Slam, in cui una generazione di tenniste ha raggiunto il suo culmine. Con due protagoniste in finale, per la prima volta in uno Major al di fuori di Roland Garros.
A questo si deve aggiungere la decisione di Pennetta di annunciare a sorpresa e in diretta mondiale il ritiro al termine della stagione, mettendo così la parola fine ad una carriera lunga, ricca di soddisfazioni ma anche di difficoltà (soprattutto fisiche) conclusa proprio con il successo più importante.
“Fla, benvenuta nel club” le ha twittato Francesca Schiavone subito dopo la vittoria, e in questo modo ha ricordato molto sportivamente il “pareggio” di titoli maggiori tra le due. Un pareggio che probabilmente darà il via a un diatriba che potrebbe diventare un classico per gli appassionati italiani: meglio i risultati raggiunti da Flavia o quelli di Francesca?
E se la finale tutta italiana è stata un evento imprevedibile ed eccezionale, il cammino di Pennetta nel resto del torneo è stato invece il tipico, impegnativo percorso che si ipotizza per uno Slam: in cui le partite crescono progressivamente di difficoltà e il successo passa attraverso gli scontri contro avversarie sempre più importanti (le teste di serie numero 22, 5 e 2). Ricordo che non sono poi così rare vittorie di Major in cui chi prevale non affronta nemmeno una top ten, o al massimo una sola. Flavia invece ha superato due top five e una ex vincitrice a New York. Vale a dire:
– 6-4, 6-4 a Samantha Stosur, sconfitta in un match estremamente solido, senza passaggi a vuoto e senza mai perdere il servizio; anzi, con una battuta che l’ha tratta di impaccio nei momenti chiave.
– 4-6, 6-4, 6-2 a Petra Kvitova, giocatrice molto ostica per Pennetta (da quando Petra è entrata nell’elite del tennis le aveva concesso solo un set), ma che questa volta ha saputo sconfiggere tenendo duro inizialmente soprattutto di carattere, riuscendo così ad allungare un match disputato in condizioni ambientali difficili e finendo per prevalere alla distanza grazie ad una condizione fisica superiore.
– 6-1, 6-3 a Simona Halep, sconfitta (come già nel 2013 a Flushing Meadows in due set), giocando forse il miglior tennis della carriera. Halep probabilmente era entrata in campo troppo tesa, ma il grande merito di Flavia è stato quello di spegnere sul nascere ogni tentativo di reazione dell’avversaria, giocando cinque game al limite della perfezione per rimontare da 1-3 a 6-3, con un parziale conclusivo addirittura di 19 punti a 2.
L’essere riuscita a produrre il proprio miglior tennis nella partita più importante e impegnativa è stato un segno di maturità decisivo, che in ultima analisi si può dire le abbia consentito di vincere lo Slam.
Un successo di questa portata stimolerebbe valutazioni più ampie sulla generazione di tenniste italiane dell’ultimo periodo; ricordo anche che questa è stata la finale degli US Open con le giocatrici complessivamente più anziane.
Ma il tema è troppo complesso per essere liquidato in poche righe, per cui su Flavia Pennetta chiudo piuttosto con un giudizio del tutto personale: secondo me con il suo ritiro perdiamo uno dei più bei rovesci bimani del tennis femminile contemporaneo. Sotto questo aspetto aver dovuto rinunciare nel giro di dodici mesi al rovescio di Li Na (per me il più bello degli ultimi anni) e poi a quello di Flavia, è proprio una brutta botta. Il tennis è fatto di tante componenti, e non credo che sia un aspetto secondario la bellezza del gesto.
Una delle caratteristiche che accomunavano Li Na e Pennetta (nate ad un solo giorno di distanza l’una dall’altra) era la capacità, anche negli scambi più incalzanti, di mantenere uno straordinario ed elegante dinamismo, che era davvero uno spettacolo per chi ama il tennis ben giocato.
3. Gli ultimi US Open senza copertura
Gli US Open 2015 si sono disputati utilizzando un campo centrale in fase di trasformazione, dato che c’era il tetto in costruzione. Qualche maligno potrebbe suggerire che nessuno più di un italiano avrebbe potuto trovarsi bene in uno scenario costituito da una grande opera incompiuta (considerate le nostre “abitudini” nazionali), ma poi si allargherebbe il discorso a questioni extratennistiche; anche se per la verità in questi giorni in Italia è stato il tennis stesso ad uscire dai soliti ambiti, conquistando le prime pagine dei giornali e dei siti generalisti.
Era davvero difficile ipotizzare che uno sport quasi di nicchia potesse diventare improvvisamente tanto popolare; e come sempre in questi casi, sono spuntati esperti e cantori del tennis femminile che prima si erano ben guardati dal venire allo scoperto…
Sono fasi temporanee che, naturalmente, passeranno; mi auguro che questa straordinaria occasione possa avere contribuito a far aumentare almeno un po’ il numero di appassionati a lungo termine.
Così come una fase temporanea è quella della costruzione del tetto dell’Arthur Ashe, che l’anno prossimo dovrebbe essere completato; a quel punto, la pioggia non sarà più un fattore negli ultimi giorni del torneo.
Ricordo che in questa edizione nel giovedì in cui erano previste le semifinali femminili la pioggia ha obbligato alla cancellazione dell’intero programma (rinviato di un giorno), facendo quindi disputare gli ultimi due turni a distanza di 24 ore. Probabilmente una programmazione che ha penalizzato Roberta, reduce dal match epico contro Serena: tre set sul piano fisico e psicologico più impegnativi rispetto ai due di Flavia, molto brava a eliminare la numero due del mondo Halep in soli 59 minuti.
Ma la pioggia ha fatto la sua comparsa anche al termine della finale femminile, senza però sostanzialmente cambiare gli eventi. Le prime gocce, leggere, sono infatti arrivate quando ancora si giocava l’ultimo game, ma sono diventate intense solo a premiazione terminata.
Avere un Centrale con la possibilità di copertura non significherà solo certezza di calendario per gli spettatori e gli organizzatori (e per le televisioni), ma anche minore stress e più equità di trattamento per i giocatori nelle fasi decisive del torneo.
Il prezzo da pagare è, come già a Wimbledon e a Melbourne, la fine del tennis esclusivamente outdoor che contraddistingueva i Major fino a qualche anno fa.
In particolare per l’Arthur Ashe, sembra che la struttura del tetto (già ora, per quanto incompleta) abbia ridotto l’influenza del vento, che era storicamente un fattore importante nel grande catino da oltre 23 mila posti. C’era chi si sapeva adattare meglio e chi peggio, e quindi anche di questo aspetto, se davvero le forti correnti sono state mitigate, andrà tenuto conto quando si ragionerà sulle condizioni di gioco.
4. Ma il tennis continua
Alcune storie sono così arrivate al termine, ma naturalmente il tennis continua, e per chiudere mi pare obbligatorio un rapido ragionamento sui risultati delle giocatrici di vertice agli US Open.
Al di là del caso tutto particolare di Serena, direi che a New York le altre top ten hanno complessivamente deluso. Senza Sharapova (infortunata) quattro sono addirittura uscite al primo turno, e solo Halep e Kvitova hanno saputo andare avanti (entrambe sconfitte da Pennetta).
E se non mi sorprende molto l’uscita di Kvitova nelle condizioni di gioco più calde sin lì incontrate (anche l’anno scorso aveva perso quando era stata programmata come primo incontro della giornata, con oltre 30 gradi), mi pare differente il caso di Simona Halep, la numero due del mondo.
Personalmente mi sono fatto l’idea che per Simona il problema di tutto il 2015 negli Slam abbia avuto una fondamentale componente psicologica. A Melbourne aveva perso da Makarova mostrando una grande difficoltà ad entrare nel match e a mettere in campo la solita grinta. Come bloccata, si era quasi arresa senza combattere.
Dopo il flop dei due Slam europei, sicuramente gli US Open hanno costituito un passo avanti. Ma contro Lisicki l’inizio del match mi aveva ricordato pericolosamente quello di Melbourne (tanti errori gratuiti, servizio incerto, body language remissivo), come se il peso del pronostico cominciasse di nuovo a farsi sentire troppo.
Anche contro Pennetta secondo me il fatto di partire favorita ha contributo a farle iniziare il match molto contratta. Solo che invece di avere di fronte l’incostante Sabine ha trovato un’avversaria in giornata di grazia e questo ha significato sconfitta con punteggio severo.
Rimane come segnale positivo l’ottimo successo contro Azarenka; ricordo però che, malgrado la differenza di ranking, Simona non partiva come sicura favorita (per i bookmaker la seconda forza del torneo era Vika), e quindi si è trovata con meno pressione addosso.
Temo quindi che il suo problema sia proprio imparare a gestire lo stress nei grandi tornei, considerando anche che dietro di lei c’è una intera nazione di cui è diventata un idolo e che la segue con enorme interesse: una aspettativa che in alcuni casi diventa un peso difficile da sopportare, soprattutto quando è “obbligata” a vincere.
Sta di fatto che, a parte Sharapova a Melbourne, nessuna altra top ten quest’anno è riuscita a raggiungere una finale Slam per provare ad arginare il dominio di Serena.
Dietro il primato di Williams si sta vivendo una situazione in cui le gerarchie sono costantemente in movimento. A questo proposito cito una dato: non accadeva dal 2004 che nella stessa stagione cinque nuove giocatrici riuscissero ad entrare tra le prime dieci.
Allora il circuito era stato investito dall’ondata russa, composta da quattro giocatrici (Sharapova, Petrova, Kuznetsova, Zvonareva), più un’argentina (Paula Suarez). Quest’anno sono diventate top ten Makarova, Suarez Navarro, Muguruza, Safarova e Pliskova; e la stagione non è ancora finita.
In sostanza sembra che dietro Serena, e con Sharapova infortunata, i valori siano diventati estremamente fluttuanti, in costante evoluzione.
Ma sul ruolo di Serena per il circuito, di quello delle altre giocatrici di vertice e delle possibili alternative (giovani o meno) conto di tornare con un nuovo articolo prossimamente.