Per completare l’analisi degli US Open 2015, ho deciso di approfondire la partita tra Roberta Vinci e Serena Williams: per una rubrica come questa sarebbe imperdonabile trascurare un evento del genere. Ci provo, anche se penso sia una sfida persa in partenza riuscire ad avvicinare l’efficacia comunicativa mostrata dalla stessa Roberta a fine match, in particolare quando ha fatto ricorso ad una sola, sintetica esclamazione. Quel “pfffrrrrr” con cui ha aperto l’intervista, e che in un istante ha raccontato un pomeriggio di emozioni inimmaginabili:
https://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=7ihotJQWLdA#t=00
Probabilmente nessuna parola può spiegare meglio una partita che, appena terminata, ha assunto immediatamente una dimensione storica, diversa da qualsiasi altra giocata recentemente, e per la quale è difficile trovare paragoni se non andando a ritroso di molti anni. Forse sino al match tra Navratilova e Sukova del 1984, ma Vinci in classifica si è presentata come numero 43 del ranking, Sukova allora era numero 10 del mondo.
C’è chi l’ha considerata la più grande sorpresa della storia del tennis femminile. È sempre difficile compiere queste valutazioni, ma direi che si può parlare con discreta sicurezza quantomeno di “sconfitta del secolo”. Nel nuovo millennio non mi pare infatti sia accaduto qualcosa di simile, considerate tutte le circostanze.
“Sconfitta del secolo” e non vittoria, perché il punto di vista degli osservatori di tutto il mondo era innanzitutto quello che faceva riferimento a Serena Williams, e solo in seconda battuta alla sua avversaria. E Serena ha perso. Lei era la favorita, lei era la giocatrice in corsa per il grande Slam, arrivata a tre soli set dal compiere l’impresa. Perché in questo match Williams si è trovata prima avanti di un set e poi di un break nel set decisivo (2-1 e servizio), eppure non è bastato per superare il penultimo ostacolo prima dell’apoteosi (6-2, 4-6, 4-6).
Serena pareva essere riuscita a sopravvivere allo stress che produce la caccia al Grande Slam, che per essere conquistato richiede 28 vittorie consecutive in quattro nazioni e tre continenti diversi. Una rincorsa che si sviluppa nell’arco di otto mesi, in cui la pressione si fa sempre più insistente, mano a mano che il traguardo si avvicina. Tre soli set ancora da vincere, giocando in casa, e contro avversarie classificate abbondantemente dietro di lei: sembrava quasi fatta.
Però che contro Roberta Vinci non sarebbe stata una passeggiata lo si poteva immaginare non tanto considerando i precedenti (4-0 a favore di Serena), quanto piuttosto il gioco sviluppato nell’ultimo incontro a Toronto, poche settimane prima della sfida di Flushing Meadows.
In quella partita Williams si era anche leggermente infortunata ad un dito della mano, a causa di un passo falso su uno scatto compiuto nel tentativo (fallito) di recuperare un drop-shot nel primo set. Lo aveva ricordato lei stessa in conferenza stampa.
https://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=dXR-TYEsbZk#t=175
A mio giudizio il match di Toronto era stato tra quelli meglio giocati da entrambe negli ultimi tempi. Il 6-4, 6-3 sembrerebbe testimoniare un andamento senza particolari problemi per Williams. Però il campo aveva mostrato un confronto molto vicino sul piano tecnico, molto più di quanto lasciasse intendere il punteggio; tanto è vero che il break decisivo del primo set era arrivato solo sul 5-4 (ed erano occorsi quattro set point per chiudere il parziale), e nel secondo set Serena era stata anche indietro di un break.
Alla fine la differenza l’aveva fatta la capacità della numero uno del mondo di giocare meglio i punti importanti: la sicurezza della campionessa, abituata a sciogliere anche i nodi più intricati con apparente facilità.
Malgrado la situazione psicologica in Canada fosse ben diversa, la partita aveva comunque lasciato intuire che Vinci possedeva le armi per creare problemi a Serena. Ciò che a Toronto era apparso come una remota possibilità, a New York è diventato improvvisamente concreto e reale.
Per diversi motivi:
1. I movimenti in campo
Spesso si sente parlare di una Williams che a 34 anni vince giocando da ferma. Personalmente non la penso così. Forse ci si fa influenzare dall’aspetto fisico: certo, Serena è “grossa”, ma nelle ultime stagioni ha curato molto di più la preparazione atletica, e non ha tanti chili di troppo; è piuttosto la sua particolare struttura muscolare a trarre in inganno.
In realtà, secondo me, scatta, si muove e difende bene, se necessario.
Io credo piuttosto che Serena abbia deciso di dosare le energie nell’arco dei match e dei tornei: limita i baby step (i passettini necessari per preparare la posizione ideale sulla palla) e confida quindi nel proprio talento naturale nel colpire “aggiustando” l’esecuzione con il braccio. Questo perché spostare un corpo tanto massiccio richiede uno sforzo notevole, che si potrebbe pagare a lungo termine.
Del resto è sostanzialmente impossibile per qualsiasi atleta essere contemporaneamente esplosivi e resistenti, e Serena appartiene alla prima categoria.
Anche per questo molte volte inizia i match cercando di muoversi il meno possibile; ma se le cose si mettono male, aumenta l’applicazione che mette in campo, utilizzando in modo più compiuto e ortodosso il footwork. Nell’ultimo anno questo atteggiamento conservativo è diventato una costante dei suoi incontri, e secondo me spiega alcuni dei primi set persi con una certa frequenza.
Ma non è stato il caso della semifinale di Flushing Meadows. Contro Vinci, Serena si era aggiudicata il primo set, e poi è andata progressivamente in difficoltà.
L’andamento anomalo a mio avviso si è verificato perché in questa occasione Vinci le ha proposto una serie di problemi differenti rispetto alla solita concorrenza, e Serena ha faticato a risolverli.
Roberta l’ha fatta muovere in avanti e indietro, sulla verticale del campo; in più l’ha spesso obbligata a colpire palle molto basse. Due situazioni inusuali che hanno spinto Serena fuori dalla sua “comfort zone”. Questo è accaduto grazie soprattutto all’utilizzo del rovescio slice, e alla costruzione di schemi a tutto campo poco praticati nel gioco odierno.
2. I problemi contro il rovescio slice
Nel tennis contemporaneo siamo abituati a ritenere la profondità di palla come un valore da perseguire sistematicamente, una delle condizioni fondamentali per mettere in difficoltà l’avversario. Ed effettivamente è così, se si ragiona con i colpi che ormai utilizzano tutti, cioè quelli in top spin. Ma se invece si ragiona sugli slice le cose vanno un po’ riconsiderate.
Lo slice non è solo un colpo differente sul piano esecutivo. È un colpo diverso anche per un’altra ragione: se si riesce a mantenere estremamente basso il rimbalzo, in diverse situazioni di gioco la profondità della traiettoria non è sempre necessaria. Anzi, può essere più difficile gestire uno slice corto rispetto ad uno profondo, perché la palla che rimbalza molto bassa vicino alla rete è ancora più difficile da “tirare su” rispetto ad una palla più lunga, dato che l’angolo utile per scavalcare la rete si riduce di parecchio.
A quel punto chi deve replicare ad una palla del genere, se vuole spingere deve prendere dei rischi ulteriori, forzando il movimento per aggiungere spin (e rendere più arcuata la parabola). In alternativa, se non vuole modificare troppo il proprio movimento, si è obbligati dalle stesse leggi della fisica ad alleggerire il colpo, affidandosi alla forza di gravità per far ricadere una palla meno veloce. Di conseguenza si deve rinunciare a qualcosa in termini di ritmo e incisività.
Ma quando si decide di replicare in questo modo agli slice corti, si corre poi il rischio di farsi trovare nella terra di nessuno (cioè troppo dentro il campo) se l’avversaria anticipa e colpisce profondo, agevolata anche dalla possibilità di attaccare una palla meno pesante.
Giocando in questo modo sulla diagonale destra, Roberta ha spesso disinnescato l’arma più solida di Serena, il rovescio, limitandone la pericolosità.
Quando il match si è fatto più incerto, Serena ha dovuto giocare tanti scambi trattenendo la potenza in modo per lei inconsueto. E non c’è niente di peggio che dover giocare di fino, modulando le energie, quando si è molto tesi e nervosi.
In queste situazioni chi fronteggia lo slice dovrebbe piuttosto mostrare pazienza e disponibilità alla fatica, “scendendo” molto con le gambe ad ogni colpo, e aspettando il momento giusto per uscire dalla diagonale. Come ha fatto Flavia Pennetta durante la finale del giorno successivo.
Ma Serena non ha avuto la pazienza necessaria, e per uscire dall’impasse ha sostanzialmente utilizzato un’unica modalità: il lungolinea immediato. Colpendo con troppa frequenza lungolinea è risultata prevedibile e, dato che ha scelto di farlo anche su traiettorie molto difficili, è diventata poco incisiva e fallosa: gli errori di rovescio totali (gratuiti e non) sono stati 25; di dritto solo 13.
In sostanza tutte le sue usuali geometrie di gioco ne hanno sofferto, a tal punto che nello scambio da fondo i vincenti di rovescio sono risultati appena 3, un numero incredibilmente basso per una giocatrice come lei; quelli di dritto 10.
Non solo: utilizzando lungolinea non sempre incisivi, Williams si è esposta ai contrattacchi di dritto di Vinci, visto che il dritto è l’arma più efficace di Roberta per cercare di rovesciare l’inerzia dello scambio e chiudere i punti da fondo campo.
C’è infine un’altra questione: lo slice è un colpo lento, che rispetto al topspin lascia più tempo per pensare. Situazione vantaggiosa se un giocatore ha le idee chiare e tranquillità d’animo, ma pessima se è in confusione tattica e sull’orlo di una crisi di nervi.
Tenendo presente tutto questo, si capisce perché in alcune occasioni del terzo set Serena sia apparsa fuori posizione, incerta tra il rischio del colpo definitivo e la prudenza del colpo interlocutorio. A partire da questa situazione confusa, Vinci ha poi saputo incidere profondamente nelle insicurezze di Serena utilizzando il dritto, che le ha consentito di aprirsi il campo sul versante opposto, oppure di spingere indietro Williams in un movimento “a yoyo” sulla verticale di gioco del tutto inusuale nel tennis contemporaneo.
Se a questo aggiungiamo la capacità di Roberta di prendere a sua volta campo per concludere di volo, si capisce quanto questo possa avere reso anomalo per Serena il problema tattico.
3. L’incapacità di cambiare tattica
“I think she lost her way mentally. Tactically she didn’t know what to do. When you make the wrong choices you lose the points you’re supposed to win and then you make more and more wrong choices. She lost her way on the path tactically.”
“Penso che si sia smarrita mentalmente. E tatticamente non ha saputo cosa fare. Quando fai le scelte sbagliate perdi i punti che pensavi di poter vincere, e poi di conseguenza fai altre scelte sbagliate, in un circolo vizioso. Sul piano tattico, ha smarrito la strada.” (Patrick Mouratoglou).
Serena era scesa in campo con un piano di gioco ragionevole: da quando collabora con Mouratoglou è diventata molto più attenta e accorta tatticamente. Solo che in questo caso quando la situazione si è fatta difficile ha perso di lucidità, non rendendosi conto che ormai la sua avversaria le aveva “preso le misure”, e ciò che sulla carta inizialmente appariva sensato, in campo non funzionava più. Era diventata prevedibile.
Ho già citato la questione del rovescio lungolinea contro lo slice; ma a questo aggiungerei anche le scelte nella direzione dei servizi. Partire bene nello scambio è indispensabile per Williams; e del resto dispone del miglior servizio del mondo: non solo perché è preciso e potente, ma anche perché è molto vario e praticamente illeggibile.
Contro Vinci una delle soluzioni più logiche era quella della palla forte e tesa sul rovescio, che per una “monomane” è particolarmente complicata da controllare. Ma con il passare dei game Roberta aveva cominciato ad organizzare discrete repliche utilizzando la risposta bloccata, di pura opposizione. Più risposte bloccate era chiamata a giocare, più riusciva non solo a tenere la palla in campo, ma anche a diventare sempre più precisa e profonda, di fatto disinnescando gran parte del vantaggio del colpo di inizio gioco.
A quel punto Serena avrebbe dovuto, a mio avviso, rendersi conto che era venuto il momento di affidarsi ad altre soluzioni: magari il kick, o battute al corpo. Invece si è intestardita, cercando di abbattere il muro avversario tirando sempre più forte. Tanto che è arrivata a servire a 126 miglia orarie (record degli ultimi tempi).
I 16 ace totali ci dicono che Serena ha servito piuttosto bene sul piano esecutivo, ma resta il fatto che ha difettato in lucidità. A questo vanno aggiunti i due doppi falli nel settimo gioco (il fatale settimo gioco) del terzo set, che le sono poi costati il break decisivo.
4. Gli errori in risposta
Inutile dire che i precedenti, la storia delle due giocatrici e la stessa partita di Toronto avevano mostrato che Serena è in assoluto più forte di Roberta. Ma nel tennis i valori si misurano ogni volta partendo da zero, e le proprie qualità vanno ribadite giorno dopo giorno.
Chi sosteneva che la peggiore avversaria di Serena sarebbe stata Serena stessa, e che la maggiore difficoltà in questi US Open sarebbe derivata dallo stress che il Grande Slam le metteva addosso, ha avuto conferma della propria tesi non solo considerando la scarsa lucidità tattica nei momenti decisivi, ma anche gli errori in risposta compiuti nel terzo set.
Lo ribadiscono le statistiche ufficiali del match: in risposta Williams ha compiuto un solo errore gratuito nel primo set, due nel secondo e ben cinque nel terzo. E questo malgrado la percentuale di prime di servizio di Vinci nel terzo set fosse scesa al 37%. Il proverbiale killer instinct questa volta non l’ha assistita.
5. I meriti di Roberta Vinci
Ultimo ma non meno importante: sarebbe profondamente ingiusto pensare che Serena si sia esclusivamente battuta da sola. Altre volte nel corso della stagione era stata in difficoltà, ma alla fine era sempre riuscita a venirne a capo. Se a New York ha perso è anche perché ha trovato di fronte una giocatrice coraggiosa e ispiratissima (“She played literally out of her mind” ha riconosciuto Serena) che ha dato il meglio nei momenti decisivi: Williams si è aggiudicata 93 punti complessivi, Vinci 85, ma a tennis conta prendersi quelli importanti.
Ad esempio lo scambio più spettacolare del match è arrivato proprio nel game che ha poi consentito a Vinci di ottenere il break determinante:
https://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=EKtGA1jmL0E#t=532
La colorita esultanza al termine del punto ci ricorda anche che Roberta ha vinto la partita giocando in trasferta “contro” un pubblico accorso per sostenere compatto la giocatrice di casa.
Se dovessi sottolineare quale è stato l’aspetto che mi ha sorpreso di più, sceglierei la capacità difensiva nel terzo set. Non è tipico di Roberta Vinci puntare sul gioco di contenimento per aggiudicarsi le partite, ma questa volta ha dato tutta se stessa anche in quell’ambito, consapevole che contro un’avversaria straordinaria occorreva un impegno straordinario. Lo racconta durante l’intervista finale, rispondendo alla domanda sullo sforzo speciale messo in campo per battere Serena: “Mi sono detta: tieni la palla in campo ad ogni costo, corri e rimanda tutte le palle in campo”.
Sembrerebbe una risposta generica, ma in realtà bisogna tenere presente quali sono le normali caratteristiche di Roberta, e cosa significasse quindi per lei decidere di darsi un tale priorità.
https://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=7ihotJQWLdA#t=193
Priorità da aggiungere alle sue specifiche attitudini di gioco; e chi ha visto il match sa che Vinci non si è affatto limitata a tenere la palla in campo, ma ha saputo approfittare al meglio delle difficoltà che il suo particolare tipo di tennis causava all’avversaria. E così si sono visti schemi a tutto campo, muovendo la palla sulla verticale, conquistando la rete e mettendo a segno punti decisivi grazie alla superiore manualità. Due dei quattro punti nel game finale sono arrivati con la demivolèe, un colpo che richiede grande sensibilità e capacità di controllo; in frangenti del genere metterne a segno due su due è un notevole segno di classe.
Rispetto ad altri periodi di carriera, Roberta ha anche mostrato una condizione fisica invidiabile, che le ha consentito di reggere lo sforzo richiesto senza perdere di lucidità. E la lucidità era indispensabile per chi doveva praticare un tennis in cui per ovviare alla inferiore forza fisica occorreva fare leva sulla sagacia tattica, la qualità tecnica e la sensibilità di chi si appoggia ai colpi altrui per proporre soluzioni di gioco sempre differenti.
Tutti elementi che hanno consentito, dopo quattro anni (Roland Garros 2011, Francesca Schiavone), ad una giocatrice con il rovescio ad una mano di tornare in una finale Slam e, soprattutto, di realizzare una delle più sorprendenti imprese della storia del tennis.