A Gennaio 2014, su uno dei campi principali del complesso degli Australian Open, un omino con la testa grossa e i polsini extralarge prendeva a pallate un gigante di due metri. Il piccoletto aveva il look di un impiegato qualsiasi al circolo per il dopolavoro, mentre l’energumeno era Juan Martin Del Potro, campione Slam cinque anni prima e testa di serie numero 5 in quell’edizione del Major di Melbourne. Il successo sull’argentino, con conseguente quarto turno perso contro Dimitrov, segnava l’inizio della stagione in cui Roberto Bautista-Agut si faceva finalmente conoscere ai piani alti del tennis internazionale.
A incontrarlo per strada, nessuno direbbe che Bautista ha come best ranking il numero 14 ATP: nessuno gli darebbe una lira, con quell’aspetto da assistente universitario, nelle sue ordinatissime polo dai colori improbabili e il cappellino con visiera un po’ retrò. Eppure, nella straordinaria ordinarietà del suo essere, lo spagnolo si sta sempre più affermando come un cavallo (poi ci torniamo…) regolare e ostico su cui avere la meglio. Una volta superato il suo aspetto, a impressionare è sicuramente il timing e la pulizia dei suoi colpi: piatti e penetranti da entrambi i lati del campo, supportati da una eccezionale abilità di lettura del gioco, che lo porta ad anticipare i colpi e disegnare geometri acutissime. Il fisico è quello che è, ma la ridotta potenza dei suoi fendenti è compensata dall’istinto tipico di chi ha più cervello che muscoli (Simon docet) e Bati si appoggia con maestria alle bordate dei superatleti con cui compete, così da togliere il tempo all’avversario e mostrare anche una più che discreta padronanza del gioco a rete: come detto, citofonare Del Potro per avere chiarimenti. Colpi piatti, volèe, gioco verticale: la tipica scuola spagnola, insomma… Non c’è nulla che faccia spiccare Bautista oltre la coltre di colleghi ben più blasonati e glamour, ma è proprio questo suo essere nessuno, a renderlo qualcuno.
“Non avrei mai creduto di arrivare in top 20, ancora meno di poter vincere un torneo”. Sugli scaffali di Roberto i trofei sono due, entrambi ottenuti nel magico 2014 che lo ha visto sollevare la palma di Most Improved Player of the Year: a s’Hertogenbosch contro Ben Becker, e a Stoccarda in rimonta contro Rosol, che comunque un paio di grattacapi a qualcuno continua a procurarli. Nello stesso anno la cavalcata fino alle semifinali del Masters 1000 di Madrid, sotto gli occhi della famiglia, arrestata solo da sua maestà Nadal. Mosca è stata invece teatro di due delle sue quattro finali perse, in cui Cilic è intervenuto evidentemente troppo spesso; l’ultima la scorsa domenica a Valencia. In mezzo, miglior piazzamento Slam nel quarto turno raggiunto in ciascuno dei Major tranne il Roland Garros, in cui ha al massimo vinto due partite nel 2013. Nessun acuto di rilievo in questa stagione, ma la costante presenza tra le teste di serie e le mine vaganti di quasiasi torneo: oltre alla soddisfazione di aver strappato un set al mostruoso Djokovic di quest’anno, agli US Open.
Taciturno ed entusiasta della sua vita al tempo stesso, lui che fino a 14 anni era considerato una futura stella del football, direbbe Gianni Clerici: la proposta del Villareal lo mise di fronte alla scelta di vita che ogni ragazzino sogna, ma alla fine decise per la busta con dentro la racchetta, che la mamma Ester gli aveva messo in mano a cinque anni per il motivo più normale di tutti: “Era mingherlino, doveva fare moto così lo iscrissi ad un corso”. Non carismatico come i suoi connazionali, non un trascinatore di folle: normale, ma non banale, anzi, un riflessivo, introverso ma non chiuso. E suoi interessi sono l’emblema del mondo che si nasconde al di là del suo viso disteso ma vispo: in viaggio per quaranta settimane l’anno, e quando ha un po’ di tempo libero non va in vacanza, niente tropici, niente lusso o simili. Piuttosto, si dedica a Bagheera e Janto, i suoi cavalli, la sua passione: “Li ho da quando ero molto piccolo, ormai abbiamo una sintonia non comune. Li curo molto, sento che mi comprendono meglio di moltissime persone”. C’è qualcosa di straordinario in un tennista così ordinario.