Questa fine di 2015 potrebbe rivelare un’amara sorpresa per l’ormai storico torneo combined di Miami. Il 9 dicembre prossimo, infatti, la International Players Championships, società del gruppo IMG che detiene i diritti del Miami Open, vedrà discussa dalla Terza Corte d’Appello di Miami la propria richiesta di ribaltare la sentenza di primo grado che per il momento consente a Bruce Matheson, discendente della famiglia originariamente proprietaria di Key Biscayne, di impedire qualunque cambiamento alla struttura attuale del Crandon Park Tennis Center.
Questa sentenza d’appello potrebbe rappresentare una tappa fondamentale nella lunghissima diatriba legale che ormai da anni vede Matheson opporsi all’ampliamento delle strutture che ogni primavera ospitano il tradizionale torneo di Miami. L’IMG, infatti, attraverso il direttore del torneo Adam Barrett, ha fatto sapere che una decisione contraria potrebbe spingere la multinazionale americana a prendere in considerazione altre sedi, nonostante un contratto in essere con Crandon Park che scadrà solo nel 2023. “A noi piace molto Miami, e proveremo a rimanere qui il più a lungo possibile – ha dichiarato Barrett al Miami Herald – ma si tratta di una semplice questione di domanda ed offerta, e gli ostacoli che stiamo affrontando ora potrebbero rivelarsi troppo duri da superare. Ogni giorno che lasciamo passare senza migliorare i nostri impianti è un giorno che tornei concorrenti utilizzano per distanziarsi sempre più da noi. Abbiamo il supporto della comunità locale, il progetto di riammodernamento è già stato approvato e sarà interamente finanziato con fondi privati, ciononostante non possiamo dare il via ai lavori, ed abbiamo già ricevuto l’interessamento di altre sedi”.
Infatti, se Barrett ha fermamente smentito di aver iniziato a cercare soluzioni alternative a Crandon Park (d’altra parte, con un contratto in essere, non sarebbe molto saggio ammetterlo), non ha però fatto mistero di essere stato contattato da altri tornei interessati allo status di Miami: la qualifica contemporanea di ATP Masters 1000 e WTA Premier Mandatory garantisce (nei limiti del possibile, ovviamente) la presenza di tutti i migliori tennisti al mondo, con un campo di partecipazione all’altezza (se non superiore) a quella dei tornei dello Slam. Senza confermare né smentire eventuali discussioni, Barrett ha fatto i nomi di alcuni impianti di assoluto livello mondiale che potrebbero tranquillamente ospitare un torneo di questo tipo: Orlando, Dubai, Doha, Beijing, Shanghai e Singapore.
Tutte queste città sono al momento punti fissi del calendario tennistico, con la sola eccezione di Orlando, dove però la federazione americana USTA sta costruendo il proprio nuovo centro tecnico federale, che da Flushing Meadows si trasferirà in una struttura faraonica dotata di oltre 100 campi da tennis in cemento e terra battuta e che occuperà una superficie di 25 ettari. Orlando è poi anche l’unica città tra quelle citate che si trovi negli Stati Uniti, ed è abbastanza facile prevedere che la USTA non lascerà nulla di intentato per evitare che questo prestigioso torneo, dal 1985 costituisce un punto di riferimento del calendario tennistico internazionale, lasci gli USA come già quelli di San Jose e Los Angeles.
In uno scenario di questo tipo, l’alternativa più indolore potrebbe essere quella di una promozione del torneo di Rio de Janeiro nella “massima serie” (almeno per quanto riguarda l’ATP). Nella città carioca si disputa già un ATP 500 sulla terra battuta, ma è già quasi pronto l’Olympic Tennis Center di Barra, che il prossimo agosto ospiterà i Giochi Olimpici. L’impianto sarà dotato di uno stadio permanente da 10.000 posti più altri 13 campi (sette per le competizioni più sei per gli allenamenti), due dei quali saranno dotati di tribune temporanee da 5.000 e 3.000 posti. In questa sede si potrebbe tranquillamente disputare un combined come il Miami Open, che in questo modo rimarrebbe nel continente americano (anche se non negli Stati Uniti) e conserverebbe il suo status di manifestazione tennistica più importante per l’America Latina.
Ma un’eventuale messa in discussione della data di Miami potrebbe dare il “la” ad una più completa riorganizzazione del calendario tennistico, già ipotizzata più volte dopo l’anno olimpico del 2016.
Si è già parlato diverse volte del desiderio di Madrid e Roma di avere un combined di 10 giorni con tabelloni a 96 giocatori e giocatrici, sulla falsariga di quanto già accade ad Indian Wells e Miami, e questa evoluzione avverrebbe nell’ottica di aumentare il numero di tornei di questo tipo e di distribuirli in maniera più equa nel corso della stagione: i due che ci sono adesso, infatti, si disputano consecutivamente, e da più parti si inizia a dubitare della necessità di dedicare di fatto l’intero mese di marzo del calendario a due soli tornei negli Stati Uniti, una realtà nella quale il tennis negli ultimi anni ha faticato molto dal punto di vista organizzativo (se si escludono i capisaldi Indian Wells e Flushing Meadows). Sono stati soprattutto i giocatori di classifica intorno alla centesima posizione, capitanati dal solito Stakhovski, a lamentarsi di un calendario così costruito, che costringe a chi non riesce ad entrare in tabellone (o qualificarsi) per Indian Wells a rimanere quasi due settimane negli USA sulle spese e con poche possibilità di giocare in attesa che inizi Miami.
Potrebbe quindi non essere un’ipotesi inverosimile quella di uno spostamento del combined di Miami ad altra data, oltre che ad altra sede, per bilanciare il calendario e lasciare al solo Indian Wells (che con i numeri che riesce a produrre e le migliorie che introduce ogni anno è ormai intoccabilmente in una categoria a sè stante) il ruolo di mega-combined di marzo.
Se così dovesse essere, non è difficile pensare ad un possibile combined in Asia durante la stagione autunnale, attualmente così bistrattata da appassionati ed addetti ai lavori, e giocata senza troppa voglia da una bella fetta di giocatori. La probabile riconferma delle ATP Finals a Londra fino almeno al 2018 (anche se senza lo sponsor storico Barclays) rimuove una pedina che l’ATP avrebbe potuto decidere di collocare in Asia, per sfruttare la grande crescita economica di quell’area del mondo, soprattutto della Cina. Anche se Stacey Allaster, la principale artefice della “WTAsia” (così è stata soprannominata la sterzata verso Oriente messa in atto dall’associazione giocatrici), non è più il Direttore Esecutivo del tennis in gonnella, ed il nuovo CEO Steve Simon sembra avere un’atteggiamento molto più tiepido nei confronti delle “tigri asiatiche”, non crediamo sarebbe troppo difficile per l’ATP convincere le ragazze ad approvare un calendario di questo tipo con un mega-combined in Cina in ottobre.
Un terzo mega-combined, come detto, potrebbe essere uno tra Madrid e Roma, che da un po’ di tempo non se le mandano a dire da questo punto di vista. A questo proposito credo sia interessante riprendere una considerazione fatta dal giovane ma molto bravo ed arguto collaboratore del New York Times Ben Rothenberg a proposito di questi due tornei: “Se riuscissero a fondersi, Madrid e Roma darebbero vita al miglior torneo del mondo. Madrid ha un grande impianto con ottime infrastrutture ed un’organizzazione molto efficiente, tutte cose che a Roma lasciano molto a desiderare. In Italia invece c’è la tradizione, il fascino di una sede impareggiabile ed il grande entusiasmo della gente, tutti punti deboli del torneo madrileno”. Osservazione certamente condivisibile, ma totalmente teorica, perché geografia, politica e fortissime contrapposizioni personali tra Ion Tirac, patron del Mutua Madrilena Open, e la FIT, “padrona” degli Internazionali, rendono una fusione tra queste due realtà meno probabile di un game perfetto (quattro ace) di Sara Errani.
Forse però ci siamo fatti prendere la mano lasciando correre la fantasia a briglie sciolte: perché se i nuovi mega-combined dovessero essere quattro (uno a stagione, indicativamente), quale sarebbe il quarto, dando per scontati Indian Wells, uno fra Madrid e Roma ed uno in Cina? Un’affascinante promozione di Halle per un torneo sull’erba? Un torneo in Brasile o in India per provare a piantare radici nei “BRIC”?
Siamo davvero nel fantatennis. Ma quello che non è fantascienza è l’appello del 9 dicembre che potrebbe dirci tante cose sul futuro del torneo di Miami, che se all’inizio del decennio era come numeri e prestigio abbastanza vicino al proprio “cugino” californiano Indian Wells, sta perdendo terreno con velocità preoccupante, anche a causa delle sue carenze logistiche strutturali di cui abbiamo trattato diverse volte: una location con una sola strada d’accesso, grande traffico (anche se la barriera per il pagamento del pedaggio all’inizio del ponte per l’isola di Key Biscayne è stata totalmente automatizzata a fine 2014, favorendo notevolmente il flusso dei veicoli) e scarsa disponibilità di alberghi a prezzi ragionevoli, a causa soprattutto della ormai perenne concomitanza con ULTRA, il festival della musica techno che si tiene a Miami immancabilmente durante l’Open. Il declino in termini di prestigio del torneo è chiaramente sintetizzata da questo fatto: nel 2015 nessun giornalista americano (a parte la stampa locale di Miami) è stato inviato al Miami Open per coprire l’evento.
Una vittoria dell’IMG in appello darebbe una indispensabile boccata d’ossigeno alle sorti del torneo, anche Matheson sicuramente non si darebbe per vinto e potrebbe inventarsi qualche altra causa, oltre a quella che ha già intentato e perso (ma ha presentato appello) per contestare il linguaggio della domanda del referendum votato dai residenti (che si sono espressi a favore dell’espansione del Crandon Park Tennis Center), a suo modo di vedere molto generica e fuorviante. Dalla sua parte il milionario americano ha sicuramente, oltre ad una notevolissima disponibilità economica, il tempo. Quel tempo che per il Miami Open in Florida sta quasi per scadere.