Tra i confini del “perimetro di gioco” delimitato da trincee ed i punti segnati nella pelle con il sangue e nel fango gelato, con gli scarponi, a macinare centinaia di km c’erano un numero esagerato di atleti fra più forti dell’emisfero. Campioni di ogni sport, uomini di ferro, considerati dai Governi risorse militari fondamentali (e capaci di formare addirittura interi reggimenti). Vere e proprie squadre armate di fucile e in trasferta sul fronte, che si sarebbero battute dalle Fiandre fino alle sconfinate steppe russe, passando per le Alpi, la Francia e la Turchia. Gli inglesi disponevano dei migliori giocatori di cricket, ragazzi che venivano disposti dietro al mirino di un fucile da cecchino, mentre i calciatori venivano fatti marciare tutto il giorno all’aperto in vista di ritirate furibonde.
Il calcio andava già per la maggiore nel vecchio continente: per quello che sarebbe diventato lo sport del secolo venivano forniti ad ogni truppa tre o quattro palloni, da utilizzare magari in qualche paradossale ‘amichevole’ nei giorni di riposo, come avvenne, ad esempio, durante il giorno di Natale del ’14, durante una tregua fra inglesi e tedeschi. Le regole erano molto semplici: non si spara durante le partita. E così avvenne, con le testimonianze del Sergente Beck annotate sulle paginette di uno sbiadito diario, che racconta come l’incontro venne poi vinto dai sassoni per 3-2, contro quella che era solamente una selezione del Berkshire inglese.
Gli italiani invece, che secondo Winston Churchill “andavano alla partita come in guerra e in guerra come alla partita”, combatterono valorosi; non retorica, ma realtà. Gente forte gli sportivi di cent’anni fa: calciatori, tennisti, ciclisti. Uno su tutti Gilberto Porro Lambertenghi, tra i migliori della pallina del primo novecento italiano, autore assieme ad Alberto Bonacossa della prima pubblicazione tennistica: “Il Tennis”, del 1914, edito da Hoepli. Lambertenghi cadde sul fronte come tanti suoi compagni, come lo stuolo di calciatori della Juventus, fra cui due dei fondatori, Enrico Canfari e Giuseppe Hess, o il ciclista Carlo Oriani, vincitore del Giro d’Italia nel ’13, morto di polmonite dopo aver attraversato il Piave gelato dopo Caporetto.
Il tennis perse sul campo talenti del calibro di Anthony “Tony” Wilding, numero 1 mondiale dal 1911 al 1913, vincitore di 6 prove del Grande Slam. Classe 1883, neozelandese, dotato di grandi abilità atletiche e di grande eleganza stilistica, aveva appena vinto con la formazione australasiana a Forest Hills il Challenge Round, antenato dell’attuale Coppa Davis: sarebbe stata l’ultimo incontro della sua vita. Pochi giorni più tardi era già stato spedito al fronte: non appena chiamato alle armi, praticamente appena messo piede all’esterno di Forest Hills, era riuscito a mettere al sicuro il trofeo all’interno di una cassaforte di New York e si apprestava a raggiungere l’esercito di Winston Chuchill in motocicletta, altra sua grande passione dopo quella della racchetta.
Approdato dunque in guerra da celebrità e considerato addirittura da Churchill esempio di rigore e forza atletica, fu affidato alle Naval Air Force in terra francese nel marzo del ’15, dove ebbe modo di compiere voli di perlustrazione su tutto il territorio in cui si stava per perpetrare la sanguinosa battaglia di Ypres. Qui ebbe modo di ideare per primo la moda di calciare un pallone verso la linea nemica all’inizio di ogni combattimento; Wilding ed il XVIII London Regiment sopravvissero a quella sanguinosa battaglia di Francia. L’asso della racchetta neozelandese si confrontò in quest’occasione per la prima volta con il fucile e il campo aperto del combattimento (ad un amico rivelò infatti la sua soddisfazione nell’esser preso in carico nella fanteria). Due mesi più tardi tuttavia Tony Wilding rimase intrappolato mentre cercava di raggiungere la propria trincea: decise di sostare qualche attimo per rifiatare in un piccolo riparo, una piccola buca esposta al fuoco nemico ma, nonostante gli avvertimenti dei compagni, Wilding non riuscì a ritirarsi in tempo e una granata lo centrò. La notizia giunse immediata in Inghilterra, dove il Primo Ministro Asquith interruppe i lavori in Aula per diramare la notizia della caduta di Wilding.
Sopravvisse invece Norman Brookes, il compagno di doppio di Coppa Davis di Wilding, vincitore di 3 titoli del Grande Slam. Passò quasi tutto il 1° Conflitto Mondiale in Croce Rossa al Cairo, come funzionario, e tornò a giocare nel ’19 a Wimbledon, dove perse da Gerald Patterson. L’anno dopo, nella sua ottava Coppa Davis, ospitò gli USA di Bill Tilden in Nuova Zelanda. Quel giorno, sul centrale di Auckland, era stata posizionata una bandiera bianca vicino alla rete a segnalare la pesante l’assenza illustre del campione caduto e Brookes, durante il minuto di silenzio, non esitò un secondo a togliersi il cappello. Morì sul finire degli anni sessanta all’età di 91 anni.
Impossibile non ricordare anche le vicissitudini del due volte campione degli U.S. Open Richard Norris Williams, statunitense classe 1891, che prima di sopravvivere alla Grande Guerra, nel 1912 affrontò anche il disastro del Titanic. Grazie alle numerose testimonianze dei sopravvissuti e dello stesso Williams, che due anni dopo avrebbe vinto il suo primo trofeo del Grande Slam, nonostante fosse uno dei “ragazzi di prima classe”, non solo era riuscito a scampare al naufragio dopo enormi sofferenze, nuotando diverse centinaia di metri nell’acqua gelida per raggiungere la scialuppa che già si allontanava, ma liberò anche un passeggero rimasto intrappolato all’interno di una cabina, cosa che gli costò per altro un richiamo da parte di uno steward; scena, quest’ultima, ripresa da James Cameron nel film campione d’incassi del 1997. Nella lotta in acqua per scampare all’ipotermia Williams rischiò l’amputazione dei due arti inferiori: i medici glielo annunciarono già al suo arrivo assieme agli altri sopravvissuti nella Carphatia, ma Dick si oppose fermamente ai bisturi: ciò infatti avrebbe significato non poter giocare più a tennis e per lui, che proprio l’anno prima aveva conquistato il suo primo trofeo, gli Swiss Championship, equivaleva a rinunciare alla vita. Affrontò con forza una dura riabilitazione prima di tornare sorprendentemente all’agonismo in pochi mesi. Due anni dopo, sul centrale in erba del Newport Casino, si affermò definitivamente conquistando il suo primo Major, lo Slam di casa degli US Open, che dedicherà al padre che invece non era riuscito a scampare alla tragedia del transatlantico britannico di due anni prima. Ripeterà il successo due anni dopo, nel ’16, prima di partire per la Prima Guerra Mondiale. Nel suo secondo rientro all’attività agonistica, Williams riesce a portare a casa un altro risultato di rilievo: alle Olimpiadi di Parigi del 1924 conquista la Medaglia d’Oro nel doppio misto in coppia con Hazel Wightman, a 33 anni. Si ritirerà undici anni dopo, e nel 1959 verrà introdotto nella Hall of Fame del tennis. Muore nel 1968 all’età di 77 anni a Philadelphia.
Fonti:
Stefano Semeraro “Centre Court – il tennis dei pionieri”
Daniele Azzolini “I ragazzi di Prima Classe”
Dal Titanic all’oro olimpico: l’incredibile storia di Richard “Dick” Norris Williams