“[…] ancora più solo di prima, c’è già il Cannibale in cima ed io che devo volare a prenderlo”. Così cantava Enrico Ruggeri quando, ormai una quindicina d’anni fa, decise di prestare il proprio inconfondibile timbro alla causa del Giro d’Italia. Oltre a costituire in senso lato una metafora per la vita quotidiana di molti, il verso esemplifica con straordinaria efficacia quella che è l’essenza di uno sport solitario, il ciclismo, fatto di uomini in perenne fuga, indomite rincorse pancia a terra e nastri d’asfalto che si inerpicano sotto le pedivelle.
La genialità di uno scritto sta nel fatto che ciascun fruitore ci si possa tranquillamente immedesimare, al punto da sentirselo cucito addosso. È il caso di una proposizione solo in apparenza rigidamente contestualizzata alle due ruote che il cantore milanese ha sì dedicato alla grandeur di Felice Gimondi ma che al prezzo di una aggiustatina poco sostanziale troverebbe nuova vita anche sbarcando sul pianeta tennis. Se provassimo infatti a sostituire l’appellativo universalmente tributato a Eddie Merckx con il più familiare Djoker, già che è di tennis che si va parlando, il risultato non sarebbe proprio quello di aver descritto con sufficiente rigore i dolori stagionali del vecchio Roger? La solitudine di un playground, un avversario irraggiungibile, la determinazione feroce nel non darsi per vinto: ecco servito il leitmotiv dell’ultima annata di Federer, sulle note un po’ malinconiche della celebre canzone.
Esiste un denominatore comune tra due discipline sulla carta dissimili come possono essere, per esempio, tennis e ciclismo? E ancora. C’è nel panorama internazionale un ciclista cui talune specificità atletiche, tecniche, emozionali o comportamentali lo rendano immediatamente riconducibile ad un collega con la racchetta? Nel caso, quale il possibile collegamento?
A metà tra il brainstorming e la libera associazione fai-da-te, a molti sarà capitato di cimentarsi almeno una volta nella vita al giochino della verbalizzazione dei pensieri nel quale, senza pensarci troppo, ad una parola se ne risponde di getto con un’altra. Se si pensa alla corpulenta figura di Rafa Nadal il profilo di un asso dello sport, l’associazione più naturale pare essere quella con Christopher Froome, l’africano volante del ciclismo contemporaneo.
Chris è un personaggio di respiro planetario che, al pari del mancino di Manacor, appartiene all’elitaria cerchia dei fuoriclasse senza tempo, annoverabili, se solo l’Unesco si occupasse anche di sport, nella lista del patrimonio dell’umanità. Come la Sierra de Tramontana, già che di Baleari si è fatto menzione, o le isole del lago Turkana. Di quel remoto Kenya che trent’anni or sono ha dato i natali, tra nugoli di mezzofondisti filiformi, anche al bianco Froome.
Se gli aficionados di un sito che tratta in maniera diffusa di tennis saprebbero enunciare a mo’ di Vangelo il curriculum vitae di Rafa, credo che qualche parolina in più nei riguardi del background di Froome sia doveroso spenderla. Nato il 20 maggio del 1985 a Nairobi da genitori britannici, e lì cresciuto fino all’età di quindici anni quando a causa del girovagare paterno – un diplomatico di Sua maestà – si è trasferito a Johannesburg, a far sul serio in sella ad una bici ha cominciato ventiduenne prestando cuore, testa e gambe ad una minuscola formazione professionistica sudafricana, tale Konica Minolta. Ad intuirne le enormi potenzialità fu Claudio Corti, all’epoca direttore tecnico del Team Barloworld. Una formazione di bandiera inglese ma dalla chiara impronta africana con la quale Froome si lega per le stagioni 2008 e 2009. Dopo l’inevitabile gavetta ai margini del ciclismo che conta, Chris sbarca finalmente in Europa. L’universo del pedale comincia ad accorgersi di un ragazzo che, se di stare in sella in maniera composta proprio non ne vuole sapere, in compenso in salita fila come un treno. Un paio di partecipazioni interlocutorie nei grandi giri a farsi le ossa ed è già tempo del grande salto con l’approdo nel Team Sky. Neonata corazzata, ben presto invincibile, che in quanto a conto in banca sta al ciclismo come i Citizens degli sceicchi stanno al football dei maestri inglesi. Con la non trascurabile differenza che gli uomini in completo attillato e frequenzimetro al petto fanno da subito incetta di allori. Senza aver la pretesa di far le veci di Wikipedia, mi limito a ricordare che in un sol lustro al soldo di Rupert Murdoch, Froome ha centrato per due volte il gradino più alto del Tour de France – tra i primi tre eventi sportivi tout court in quanto a seguito di pubblico – giungendo secondo, più per ordini di scuderia che per manifesta superiorità altrui, in una terza circostanza. E sempre nel magico quinquennio targato Sky, per lui anche un bronzo olimpico, uno mondiale e due piazze d’onore alla Vuelta di Spagna.
Froome, bene dirlo, non è nato Froome alla stregua di quei predestinati baciati dal talento. Un po’ come Rafa, in fin dei conti. Più costruito dalla scienza esatta che non pilotato dall’istinto, la sua è stata una crescita sportiva graduale. Con uno spartiacque poco simpatico dall’impronunciabile nome di schistosomiasi ed un lieto fine come in ogni bella storia che si rispetti. Trattasi di una malattia tropicale africana difficilmente diagnosticabile che si contrae bevendo acqua infetta. Nei casi più gravi dicono possa portare anche alla morte mentre più comunemente è causa di una devastante spossatezza. Correva l’anno 2013 quando, con la definitiva guarigione, il vento è cambiato e Froome si è fatto irruento come quel Maestrale che valicati i Pirenei sferza la valle del Rodano nei giorni in cui la Francia del pedale si tinge di giallo. Tanto da incominciare a riscrivere la storia dello sport eroico che fu di Coppi e Bartali. Quanto Nadal, dal 2005 in poi, con quello di Tilden.
L’ovvietà di un collegamento potenzialmente bizzarro è appunto che di due mostri sacri trattasi. La cui stanza dei trofei deborda oggi di una tale numerosità di riconoscimenti che potrebbe far la felicità delle generazioni future di atleti da qui al quarto millennio. Ad essere meno scontato c’è che entrambi abbiano scelto come terreno di conquista preferenziale proprio la Francia. Terra di poeti, chansonniers, campi di girasole e, appunto, campioni in transito a caccia della gloria eterna. Nello specifico è quindi identificabile un fil rouge che dal raffinato XVI arrondissement parigino, teatro primaverile del Roland Garros, arriva fino all’Avenue des Champs Élysées, la tradizionale passerella finale per gli esausti protagonisti del Tour de France. Per una suola che nel suo incedere dissoda il mattone tritato, c’è dunque un tubolare che poco lontano incide le strade d’oltralpe arroventate dal sole; per un diritto uncinato che lambisce la riga nel silenzio del Philippe Chatrier, una progressione forsennata screma il plotone dei battistrada all’imbocco di una salita. Stesso sudore, stessa indomita abnegazione, stessa grinta, stesso risultato. Se uno abitualmente solleva la Coppa dei Moschettieri, l’altro esibisce con invidiabile frequenza il trofeo di cristallo che spetta al dominatore della Grand Boucle. Due destini vincenti accomunati anche dalla disaffezione (un eufemismo nel caso di Froome) di un pubblico transalpino notoriamente un po’ snob, che troppe volte ha avuto occhi di riguardo solo per le rispettive nemesi. Quei due là tutti perfettini che infiammano gli animi a suon di frustate liquide e colpi di pistola, con la fatica che sembra non essere affar loro.
Vittorie in serie e carattere da vendere, quindi. C’è però qualcos’altro che avvicina Rafa a Chris. Un concetto ottenuto miscelando tre ingredienti: evoluzione, esasperazione e fisica classica.
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