L’enorme fragore seguito alla conferenza stampa di lunedì sera (in Europa) di Maria Sharapova, seguito dalle sorprendenti leggerezze dell’ex ministro Bachelot ha scatenato un dibattito che non ha risparmiato nessuno. Tutti – addetti ai lavori, esperti, medici, tifosi, spettatori, passanti – hanno scoperto di avere un’opinione su un argomento terribilmente complicato. Senza dover richiamare Dahl, sappiamo che in fondo uno dei tanti vantaggi di un sistema democratico, è proprio quello di far esprimere chiunque e l’alternativa produrrebbe effetti peggiori. Quindi lungi da noi l’idea di impedire o – peggio – stabilire, chi debba intervenire e chi no; anzi, al contrario, cerchiamo di allargarne il numero provando a fornire delle informazioni o dei punti di vista (o dei punti di vista mascherati da informazioni…), utili soprattutto per “gli addetti ai lavori”, che più di tutti si sono lanciati in interpretazioni legalistiche, quando andava bene. A proposito dei “legalisti”. Questo articolo non è per loro, potete tranquillamente saltarlo e leggere solo l’ultimo periodo, se avete voglia. Per gli altri, speriamo sia utile.
Cos’è il doping?
La prima cosa che si scopre è che esistono tante definizioni quante sono gli organismi che se ne occupano. Impossibile rendere conto di tutte, ne prenderemo tre che ci sembrano in ogni caso abbastanza in linea con tutte le altre.
Per il Consiglio d’Europa (1972) “il doping consiste nella somministrazione o assunzione, da parte di individui in buona salute, di sostanze di ogni genere che sono estranee alla costituzione dell’organismo, di sostanze fisiologiche non naturali o che sono utilizzate in maniera abnorme, al fine di migliorare artificialmente e scorrettamente la prestazione in un evento sportivo. Inoltre devono essere considerati doping anche un certo numero di interventi psicologici attuati per migliorare la prestazione”.
Nel 1998 la Fifa ha inteso per doping “ogni tentativo non fisiologico di aumentare le capacità fisiche e psichiche del giocatore o di trattare disturbi o lesioni, quando non giustificato sul piano medico, per il solo scopo di prendere parte alla competizione, impiegando (per auto-somministrazione) somministrazione o prescrizione, una sostanza dopante vietata, quale che sia la persona che abbia preso l’iniziativa, atleta o altro (allenatore, preparatore, medico, fisioterapista o massaggiatore), prima o durante una competizione. [Il doping] rappresenta un pericolo acuto o cronico per la salute del giocatore, con possibili conseguenze fatali”.
Naturalmente di doping parlano vari ordinamenti nazionali. Estrapoliamone uno per tutti, quello dell’Agenzia francese per la lotta contro il doping. Secondo l’Agenzia doparsi significa “assumere sostanze – o adottare processi – capaci di modificare artificialmente le capacità di un atleta o di nascondere l’assunzione di sostanze in grado di modificare queste capacità”.
Tutte queste definizioni convergono su una cosa che sembrerebbe chiara: non puoi migliorare la performance assumendo sostanze illecite. Se ne deduce quindi che puoi migliorare le tue prestazioni assumendo sostanze lecite, che evidentemente devono esistere. A questo punto cercheremo di capire il motivo per il quale una sostanza viene definita illecita.
L’arrivo della WADA
Le Federazioni Nazionali e Internazionali hanno vagato in ordine sparso fino al 1999, quando il Comitato Internazionale Olimpico ha creato una Fondazione che avrebbe dovuto coordinare la lotta antidoping, la ormai arcinota WADA (World Anti-Doping Agency). Per raggiungere il proprio obiettivo, questa Fondazione pubblico-privata avrebbe dovuto cooperare con le varie autorità governative, più in generale con le autorità pubbliche, con le varie Federazioni Internazionali e con i Comitati Olimpici Nazionali (in Italia il CONI) dal quale dipendono le varie Federazioni locali. La cooperazione serve perché ovviamente la WADA non è in grado né di comminare squalifiche né di emanare leggi o regolamenti. La speranza era che la cooperazione portasse ad uniformare sia gli ordinamenti sportivi che gli ordinamenti ordinari. Come si sa le cose procedono lentamente, ma la WADA è diventata – tra vari intoppi e molte critiche – un punto di riferimento per la lotta contro il doping. Il ruolo fondamentale della WADA, col passare del tempo, è stato quello di dire cosa è proibito e cosa no. Attenzione: nessun ordinamento nazionale è obbligato – e non potrebbe essere altrimenti – a seguire le direttive, tant’è che alcuni stati hanno una legislazione che non segue certo pedissequamente le indicazioni della WADA. Ovviamente è più complicato disattenderle da parte dei Comitati Olimpici Nazionali che infatti, nella quasi totalità dei casi, adottano come proprie le decisioni della WADA. Soprattutto, delegano alla WADA, la decisione su cosa è lecito e cosa no. Ma in in base a che cosa?
Le sostanze illecite secondo la WADA
La WADA ha fin qui pubblicato tre diverse versioni del codice, una nel 2003, una nel 2009 e l’ultima, quella adesso in vigore, nel 2015. Nel capitolo 4 di quest’ultimo codice, al punto 3, si specifica il procedimento attraverso il quale una sostanza viene inserita nell’elenco di quelle proibite. Anche qui, prima di osservare i criteri, sarà il caso di fare una precisazione: le sostanze non inserite non sono, non dopanti, se per “doping” intendiamo quello specificato dalle definizioni riportate sopra. Sono soltanto lecite. Infatti se il doping è identificato come quell’attività (somministrazione, pratiche, interventi artificiali) che serve a migliorare le prestazioni e alcune sostanze, pratiche, interventi aiutano artificialmente a migliorare le prestazioni ma NON sono incluse nella lista della WADA significa che esiste un doping, diciamo così, lecito. Quando diventa illecito? Per diventare illecita la sostanza deve soddisfare DUE delle seguenti tre condizioni:
La prima: quando (punto 4.3.1.1) “evidenze mediche o di altro tipo mostrano che la sostanza, pratica, intervento in questione ha la possibilità – da solo o in combinazione con altre sostanze – di migliorare le prestazioni o le migliora effettivamente”.
La cosa interessante è che questo aspetto, da tutti considerato quello determinante, in realtà NON BASTA a definire illecita una sostanza. Cioè io posso tranquillamente assumere qualsiasi cosa a condizione che gli altri due criteri NON siano soddisfatti. Quali sono questi due criteri? Vediamoli.
Il punto 4.3.1.2 ci dice che la sostanza, intervento, pratica deve avere prove mediche o scientifiche che rappresenti un potenziale (o che lo sia effettivamente) rischio per la salute. Se il medicinale o la pratica migliora le prestazioni in modo artificiale E CONTEMPORANEAMENTE mette a rischio la salute di chi l’assume allora il farmaco finisce nella lista proibita.
C’è una terza condizione, che potrebbe entrare in gioco. Ed è una condizione che davvero lascia perplessi. Se esiste una sostanza che migliora la prestazione SENZA nessuno rischio per la salute, questa può ugualmente essere inserita nella lista delle sostanze proibite se il suo uso (punto 4.3.1.3) viola “lo spirito dello sport!” Cos’è questo “spirito dello sport”? È “described in the introduction to the Code”.
A pag. 14 del Codice “Fundamental Rationale For The World Anti-Doping Code” si dice che “lo spirito dello sport è l’essenza degli ideali e dei valori olimpici, il perseguimento dell’eccellenza umana attraverso la perfezione rivolta al naturale talento di ogni persona. Lo spirito dello sport è la celebrazione dello spirito, del corpo e della mente umana, e si riflette nei valori che ritroviamo e diffondiamo attraverso lo sport, tra cui:
– Etica, fair play ed onestà
– Salute
– Eccellenza nella performance
– Carattere ed educazione
– Gioia e divertimento
– Lavoro di squadra
– Dedizione ed impegno
– Rispetto delle regole e delle leggi
– Rispetto per se stessi e per gli altri partecipanti
– Coraggio
– Condivisione e solidarietà
Come chiunque può osservare è davvero misterioso comprendere in che modo si possa giudicare la violazione dello “spirito dello sport” senza scadere in una qualche forma di soggettività.
Quello che emerge è una preoccupante discrezionalità da parte dell’Agenzia nel decidere cosa inserire e cosa no. Che non è esattamente il modo migliore per affrontare un tema così complesso.
Nel caso Sharapova per esempio, posto che sia dimostrato che il meldonio migliora le prestazione qual è il secondo criterio che ha indotto la WADA ad inserirlo nella lista dei farmaci proibiti? E perché, in questa vicenda, si fa riferimento sempre al primo criterio ma nulla si sa della violazione del secondo?
Conclusioni
Se le cose stanno come descritte diventa complicato fare particolari distinzioni tra atleta e atleta. L’assunzione del farmaco, se per farmaco intendiamo dalla semplice aspirina allo steroide più invasivo, o l’esercizio di una pratica – questione ancora più oscura che riguarda la liceità dell’autoemotrasfusione o l’uso di camere per l’ossigenazione – può diventare illegale da un anno all’altro. E purtroppo, se diventa illegale nel modo descritto sopra, è impossibile comprendere se il motivo per cui è diventata illegale è ragionevole o meno. O, per essere maggiormente cauti, è impossibile comprenderne il motivo per la pubblica opinione. Non possiamo ovviamente escludere che gli organismi della WADA abbiano – o utilizzando strutture proprie o appoggiandosi a laboratori altri – le informazioni scientifiche sufficienti per soddisfare i due criteri “oggettivi” di cui abbiamo parlato sopra. Anzi, ci auguriamo che sia così e vogliamo crederci. Ma se ne avessero uno soltanto, come sembra anche dalle assurde “note esplicative” che accompagnano la lista delle sostanze proibite per il 2016, il secondo sarebbe semplicemente oggetto di controversie oscure e sospette. E non aiuta di certo il fatto che la stessa WADA non sia un esempio di trasparenza, visto che è pratica complicatissima comprendere come siano scelti i membri del suo board. Quindi ancor prima di dar addosso a Sharapova, Nadal, Djokovic e domani Federer, Serena Williams e chissà chi altri, sembrerebbe necessario trovare un modo per rendere chiari i contorni dell’affaire doping. Ma c’è davvero questo modo?
Cerchiamo di tornare all’essenziale. Gli atleti, ma gli esseri umani in generale, da sempre – e per “da sempre” si intende sin dalle olimpiadi greche – hanno cercato qualcosa che li facesse andare più veloce, li facesse essere più resistenti alla fatica, che migliorasse i riflessi o la capacità di concentrazione. E da sempre hanno fatto uso di tutte le possibilità che il proprio tempo gli concedeva. Il fatto è che i tempi moderni sono anche pericolosi, ma si sbaglia chi pensa che lo siano per la prima volta, visto che i primi morti risalgono addirittura al XIX secolo. Ed è vero che ci troviamo di fronte a tre opzioni e tutte e tre poco desiderabili.
- Liberalizzazione
- Totale proibizionismo
- Regolamentazione
Vediamole nel dettaglio.
- A questo punto, perché non liberalizzare tutto allora? Ognuno prenda quello che vuole e se la veda con la sua coscienza e con il suo fisico. Esistono almeno due controindicazioni a questa soluzione, la prima di carattere morale, la seconda “sportivo”. Quella di carattere morale è che a nessuno dev’essere consentito di fare scempio del proprio corpo, quali che siano le motivazioni. È questo il motivo per cui la prostituzione è illegale e la gestazione per altri pure. Il “vendere” il proprio corpo per il nostro divertimento dovrebbe essere pratica proibita nelle società civili;
quello di carattere sportivo riguarda la già accentuata ineguaglianza di opportunità che sussistono nello sport. Uno dei luoghi comuni duri a cadere è che lo sport metta tutti quanti nelle condizioni di competere alla pari. Ovviamente, a parte le eccezioni, è una sciocchezza, visto che molto dipende banalmente dalle possibilità che hai di allenarti, di avere o no buoni maestri, dalle possibilità economiche. E non è certo agli appassionati di tennis che questo va spiegato. La libera ricerca farmaceutica non è alla portata di tutti e – più di ora… – i vincitori slam si deciderebbero al chiuso di chissà quale Consiglio di Amministrazione. - E allora vietiamo tutto, pure acqua e zucchero. A parte la palese impossibilità della soluzione anche qui non si capisce perché mai proibire qualcosa che non fa male. Certo, la soluzione avrebbe il pregio di essere egualitaria ma se restiamo nel mondo reale diventa semplice comprendere come sembri una strada impraticabile.
- La terza è la soluzione che stiamo adottando. E della quale si vedono ogni giorno le controindicazioni.
Per una volta almeno abbiamo la soddisfazione che tra tutte queste forse inestricabili difficoltà, almeno la legge italiana, svetta per coerenza: in Italia infatti “costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”. La vera differenza è appunto la “condizione patologica” unica che giustifica il ricorso ai farmaci.
Mestamente, ci avviamo alla conclusione, pensando che alla fine il vero doping è definito proprio dalla WADA:
“Doping is defined as the occurrence of one or more of the anti-doping rule violations set forth in Article 2.1 through article 2.8 of the World Anti-Doping Code”.
“Con il termine doping si intende il verificarsi di una o più violazioni previste dal Regolamento dell’attività anti-doping”.
È doping perché lo voglio io.
(hanno collaborato Silvia Berna, Chiara Bracco, Marco Lauria, Benedetto Napoli, Tommaso Voto)