Qualcuno di voi conosce forse Rudy Vallee? Vi aiuto: non è un tennista. Rudy Vallee è stato un attore, cantante e musicista statunitense vissuto i primi 85 anni del secolo scorso. Ok, vi chiederete, e allora? Beh, nei tortuosi meandri della mente umana, talvolta si celano angoli bui e nascosti in cui teniamo segregati pensieri in apparenza innocenti; ma solo in apparenza. Ora, difficile stabilire se il brodo primordiale da cui ha preso corpo e sostanza il torneo che andremo a trattare in questa sede sia proprio uno dei suddetti pensieri. Tuttavia, non è nemmeno del tutto impossibile.
Perché, come racconta Joel Drucker nel suo meraviglioso “Jimmy Connors saved my life”, Alan King un giorno ebbe a dire, in merito al West Side Tennis Club di Forest Hills che pure era sede degli US Open, qualcosa come: “È un posto orribile! Tutti in quel club assomigliavano a Rudy Vallee, il che fa molto cultura del vecchio mondo del tennis”. A questo punto, per cercare di completare il ragionamento senza la certezza di esserci riuscito, val la pena puntualizzare che Rudy Vallee, grazie alla voce vellutata e all’aria da bravo ragazzo, fu in un certo senso l’antesignano del crooner e che, per reazione, King ideò la sua creatura tennistica basandosi su canoni e concetti del tutto opposti.
Ammettendo che sia andata così, in quale luogo dell’America, nei primi ruggenti anni Open, era logico organizzare un torneo che si facesse beffa delle convenzioni e trasformasse il tennis in uno spettacolo? Las Vegas, naturalmente.
Al n°3570 di Boulevard South, più famosa come Strip, il 5 agosto del 1966 venne inaugurato uno degli hotel destinati a trasformarsi nel tempo in un simbolo. La brillante idea era venuta qualche anno prima a Jay Sarno, fino ad allora proprietario di piccoli alberghi; Jay chiese ed ottenne un cospicuo prestito dalla Teamsters Central State Pension Fund e trasformò un suo progetto nel Caesars Palace. Il palazzo dei Cesari, dove tutto ricordava Giulio Cesare e l’antica Roma e dove ogni avventore si sarebbe sentito come proprio come un imperatore.
L’incontro fatale e inevitabile tra Alan King e il Caesars Palace avvenne grazie a Frank Sinatra, quando quest’ultimo vi si trasferì in pianta stabile. Alan era un intrattenitore dotato di grande senso della comicità e dell’umorismo e, non di meno, era un appassionato di tennis. Così, allargando i cordoni della sua borsa personale, nel 1972 King si accordò con Lamar Hunt per inserire il torneo che prendeva il suo nome nel circuito WCT: era nato l’Alan King Tennis Classic.
Il primo show (lo chiameremo così, perché torneo è forse un po’ riduttivo almeno stando alle intenzioni del suo mentore) ebbe luogo alle idi di maggio ed era dotato di un montepremi complessivo di 50.000$. Sui campi in cemento del Caesars Palace partirono in 31 (Ken Rosewall, testa di serie n°2, fu l’unico a ricevere un bye) e alla fine arrivarono Cliff Drysdale e John Newcombe. Il primo, sudafricano di Nelspruit che impugnava la racchetta con un guanto da golf nella mano destra e si aiutava con la sinistra nell’esecuzione del rovescio, era la quarta scelta del draw di Las Vegas e lo statunitense Marty Riessen gli aveva fatto il favore di eliminare il grande favorito Rod Laver nei quarti. Ancor meglio, quanto a pedigree dell’avversario, andò a Newcombe che, in semifinale, si trovò l’unico unseeded rimasto, ovvero Frank Froehling, un trentenne amante del serve&volley ma ormai agli sgoccioli della carriera. Newcombe chiuderà il torneo senza perdere alcun set.
L’anno successivo, alla roulette del Caesars Palace, esce a sorpresa il 15. Brian Gottfried, 21 anni, torna nella natia Fort Lauderdale a bordo della Buick che ha ricevuto in premio insieme ai 30 mila dollari riservati al vincitore. I “Cesari” convenuti a Las Vegas dopo la durissima stagione indoor del WCT sono tanti e molti di questi reduci dal Masters di Dallas. Il profumo dei dollari però è un attrattivo irresistibile e Alan King ha addirittura triplicato il montepremi rispetto alla prima edizione. E poi c’è tutto il resto, a cui l’anfitrione (con la preziosa collaborazione di Pancho Gonzales, direttore del torneo) di origine ebraica provvede senza fare economia, come i celebri party a base di caviale e champagne pieni zeppi di celebrità.
In mezzo a tanto fasto, nessuno si aspetta che emerga Gottfried. Invece il ragazzo sa esprimere un tennis completo e senza sbavature, eccellente in attacco ma non privo di soluzioni pure nella fase difensiva, con un rovescio in back invidiabile per stile ed efficacia. Del resto, quando nessuno dei primi quattro va oltre il secondo turno, per tutti gli altri è più che lecito sperare. Stan Smith, n°1, si fa sorprendere da un sudafricano che sembra appena uscito da una comune hippy, tal Ray Moore (che in futuro diventerà direttore – recentemente dimissionario – del torneo di Indian Wells) con tanto di baffoni e lunghi capelli trattenuti da variopinte fascette. Quasi peggio di lui fa Rod Laver, che prende cappotto al terzo dal connazionale Crealy, mentre Rosewall (3) e Newcombe (4) perdono subito dopo. Quando sembra che, con Ashe (5) in finale, le gerarchie vengano ristabilite, ecco che Gottfried gli lascia appena quattro giochi e va a sedersi felice sulla Buick.
Nel 1974, lo stesso anno in cui, qualche mese più tardi, un altro King, Don, organizzerà a Kinshasa la celeberrima “Rumble in the Jungle” tra Alì e Foreman, la Buick viene sostituita da una Mercedes Benz e Rod Laver fa sapere al mondo di non essere ancora del tutto finito. Con i suoi due Grand Slam, uno da amatore e l’altro da professionista, l’australiano è già leggenda e lo è a tal punto che, pur non vincendo un major da cinque anni, dopo aver dominato la stagione in corso, Jimmy Connors ha un solo obiettivo per il ’75: “E adesso datemi Rod Laver!” tuona il ragazzo dell’Illinois e Bill Riordan lo accontenta subito. Il 2 febbraio, sempre al Caesars Palace ma in un campo indoor, Jimbo fa suo quello che venne reclamizzato come il “campionato dei pesi massimi del tennis” ma solo per 7-5 al quarto set e tutto sommato Rocket, che ha pur sempre quattordici anni in più, esce dalla sfida a testa alta.
Qualche mese dopo, Laver torna a Las Vegas da secondo favorito ma è ormai un guerriero esausto e si fa sorprendere al secondo turno dal cileno Jaime Fillol. L’Australia rimedia con altri tre pretendenti ma alla fine a spuntarla è un americano il cui servizio viaggia assai più veloce del treno che, grazie a Glenn Miller, ha reso celebre la sua città natale: Chattanooga. Roscoe Tanner ingaggia una battaglia con Ross Case, il meno conosciuto dei canguri, e prevale al tie-break del terzo.
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