Nei primi anni ‘70, una Mina in condizioni straripanti registrò “Pioggia di Marzo”, traduzione di un canzone brasiliana, “Águas de Março”, riadattata grazie all’aiuto di Ivano Fossati. Il pezzo in sé non può essere descritto: né tecnicamente, perché ha tratti di bossa nova e samba, ma con un flauto verso la fine che può far pensare a tutt’altro, dai boy scout ai Jethro Tull. Né da un punto di vista del significato, perché il testo può voler dire tutto e nulla, non ha un riferimento preciso, ma al contempo regala fotografie e ricordi di decine di panorami. Va ovviamente ascoltata, più volte, per comprenderla e per darle un’interpretazione personale, per capire a cosa davvero si possano appiccicare le parole di quella che è un’autentica poesia in musica: la lettura di quello che segue potrebbe essere favorita dal tasto play, poi non dite che non eravate stati avvertiti.
È ma, è forse,
è quando tu voli,
rimbalzo dell’eco,
è stare da soli
Il Country Club di Montecarlo è così: è evidentemente circondato da un’aura, che assume sfumature diverse a seconda dell’ora in cui ci si passeggia. Forte, travolgente al mattino, quando il caldissimo sole monegasco tira dardi sui campi rossi, oppure romantico, sensuale, quando il tramonto fa sembrare l’albergo Montecarlo Bay sullo sfondo ancora più rosa di quanto non sia. Eppure non c’è esattamente una caratteristica che rende questo luogo, di fatto, unico.
È l’ingresso, che si snoda su due scomodissime curve e si evidenzia grazie a dei tendoni bianchi: all’interno, un tappeto simil-moquette rosso porta fino alle scrivanie degli accrediti, fermata ovviamente obbligatoria prima di addentrarsi nel cuore di questa struttura così esclusiva.
È l’intreccio di minuscoli vicoli di pietra, che come arterie si sviluppano attorno ai campi, 11 in tutto: l’intero complesso si estende in verticale, arroccato sul promontorio che si tuffa sulla baia, un sorriso blu con agli angoli due strutture alberghiere di indubitabile lusso.
È la sala stampa, il punto più alto di tutta la planimetria, che domina il Centrale e regala una pittoresca veduta dell’impianto: all’interno l’atmosfera è raccolta, quasi intima, due grandi stanze sono la casa dei giornalisti per l’intera settimana, separate da uno strettissimo corridoio dalla sala interviste. Minima, con un sedia in acciaio e un microfono su un tavolino di vetro a fare da postazione per i giocatori, illuminati dalla luce che entra da due finestroni: sembra un salotto dove chiacchierare con qualsiasi ospite. Ad una delle estremità dell’area media c’è il desk della reception, attaccato al bancone del bar e alla scrivania dei quotidiani.
È la gente che affolla il circolo già dalle prime ore del mattino, le eleganti camicie di chi pranzerà al ristorante centrale, i calzettoni di spugna e le scarpe da ginnastica di chi invece preferisce vestire come i propri beniamini. Sono occhiali da sole, le facce stupite dei ragazzini che passano davanti allo stupendo stand della Rolex, le orde di tifosi che con sguardo penetrante scannerizzano i badge degli addetti ai lavori, sperando di riconoscere qualche giocatore, allenatore, annesso o connesso.
È il villaggio VIP, minuscola oasi in cui i tennisti possono rifugiarsi con il proprio staff, la cui terrazza (che ospita la colazione per la stampa offerta dal main sponsor al venerdì) affaccia sul Campo dei Principi: così Flavia Pennetta spiava dall’alto il doppio del suo bello, oppure Kohlschreiber e Verdasco chiacchieravano mentre Cuevas sudava e correva per avere la meglio su Gimeno Traver. Al centro del villaggio, un quadrato di gazebi con brand lussuosi, ognuno dei quali con rispettivi tavolini e mini buffet di aperitivo.
È il Campo Centrale Ranieri III, che si apre come un fiore con il mare sullo sfondo e conferisce un’atmosfera pacata ma attraente, soprattutto durante gli ultimi match, quando inizia a fare fresco e le luci si abbassano: e allora anche essere uno dei pochissimi spettatori per l’ultimo match del lunedì diventa uno spettacolo. È il Campo dei Principi, con i posti riservati alla stampa che permettono quasi di toccare con mano gli atleti, sentendone i lamenti, le esultanze e i monologhi, mentre allenatori e fidanzate siedono a pochi passi. È il Campo 2, poco considerato ma sempre affascinante, con le tribunette che si riempiono ogni volta che qualche tennista francese meno sponsorizzato è chiamato alla battaglia su quel palcoscenico di periferia.
È anche la storia del torneo, con la parete della scalinata che porta in sala stampa, sulla quale è affissa una lastra in marmo con incisi i nomi di tutti i vincitori, di singolare e doppio, dai sei trionfi di Reggie Doherty agli albori del ‘900, fino al dominio con gli otto titoli di Rafael Nadal e l’arrivo di Novak Djokovic, con le interruzioni dovute alle guerre mondiali. È la boulangerie a pochi passi dall’ingresso, dove ogni mattina giornalisti e addetti ai lavori si riuniscono casualmente per fare colazione con croissant e pain au chocolat, tra i sorrisi assonnati di chi magari non si conosce, ma sa di far parte di un unico gigantesco gruppo di anime che si dedicano ad una passione.
È arrivare a fine giornata distrutti dopo le migliaia di scalini percorsi, da appassionato o membro dei media, ed essere sollevati dal viso solare degli adedeti alla transportation, che danno appuntamento al giorno dopo.
È il rimbalzo dell’eco, è stare da soli.