Muguruza regina nella finale colpi duri. Serena ancora ko (Gianni Clerici, La Repubblica)
Si è divertita soprattutto la mia nipotina Lea, che, nell’assistere ai ripetuti colpacci della star vecchia, Serena, e di quella nuova, Garbiñe, non faceva che ripetere Pim Pum, per esclamare Pam a seguito del punto vincente. Lea non solo si divertiva quanto il nonno si annoiava ma aveva, tra i suoi recenti ricordi, da comunicarmi: “Fra i miei giochi ne avevo uno che si chiamava Ping o Tronic, che era un po’ come questa partita, nonno. Su uno schermo una pallina andava e veniva, sempre più veloce, sinché una specie di racchetta, una sbarretta, non riusciva più a aderirle”. Mi sembra questo il modo migliore di comunicare al lettore del tutto ignaro, o allo spettatore televisivo oggetto di commenti forse positivi, una vicenda mai avvenuta, in una finale femminile al Roland Garros. Una vicenda tale che, il primo e unico colpo accarezzato, un tentato drop shot – per altro fallito da Serena – si è visto nel corso del ventunesimo game di un match che ne ha contati in tutto 22. E il primo lob, peraltro caduto su una riga, nell’ultimo scambio. Mi si potrà certo obiettare che io prediligo i match maschili, per solito più vari dei femminili, sinché l’arrivo della Navratilova mutò un’antica tradizione. Mi si potrà anche ricordare che, via via che Serena invecchiava, e passava dalla ignara assistenza di un padre padrone a quella di un allenatore vincente, Mouratoglu, il suo gioco diveniva splendidamente monotono, basato su rimbalzi vincenti, o su quelle successive riprese al volo che ho ribattezzato schiaffi. Non pensavo, tuttavia, che Serena potesse far scuola, tanto da essere oggi battuta da qualcuno che le assomigliava nei gesti. Chissà chi avrà insegnato, nel Venezuela, a colpire la palla con la racchetta ad una bambina quale Garbiñe Muguruza, a quella Garbiñe che, mi dice un collega spagnolo, significa Immacolata. Quell’ignoto Maestro doveva aver nella mente un’immagine di Serena, un’immagine spinta verso il futuro di un tennis sintetico, se mi permettete rozzo, fatto solo di rimbalzi vincenti e di eventuali successivi schiaffi. L’immagine di Serena è stata via via elaborata mentre Garbiñe cresceva, e deve essersi immaginata di vedersi oggi in uno specchio colorato, e capace di infrangerlo. Abbiamo dunque una nuova campionessa che, io almeno, non mi aspettavo. La campionessa di un gioco simile al tennis, quello che la mia nipotina Lea ha definito “Tennis pum”. Perdonate, vi prego, un vecchio scriba che non sa essere entusiasta.
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Muguruza boom: spazza via Serena e si prende Parigi (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)
C’è una nuova regina. Sulla terra di Parigi si torna a far festa in spagnolo. Ma Nadal, piuttosto abituato ai trionfi in zona, stavolta partecipa solo con un tweet, uno delle migliaia che illumineranno lo smartphone di Garbiñe Muguruza, con la tilde rigorosamente sul nome a garantirne l’esatta pronuncia, Garbigne, che in basco significa Immacolata: pare che la cattiva pronuncia sia una delle poche cose che la mandino davvero fuori di testa. Si siede sul trono scalzando quella Serena Williams campionessa uscente, una Serena quasi svuotata del suo spirito guerriero, fermata ancora a un passo dal sogno, dopo New York e dopo l’Australia, con la Graf che le resta sempre davanti di uno Slam, 22 a 21, una specie di maledizione a distanza. C’era una volta Arantxa Sanchez, l’unica donna al di là dei Pirenei capace di prendersi il Roland Garros, addirittura per tre volte. Un’eredità adesso raccolta da una ragazza solare con un paio di gambe da miss, figlia di un imprenditore dell’acciaio partito da Eibar per cercare fortuna in Venezuela. Fino a due anni fa, Garbiñe è rimasta nel limbo tra il paese di nascita e quello di adozione, per poi scegliere la Spagna che la ebbe a sei anni, già tennista in fasce sulle orme dei fratelli che però giocavano al club solo per divertimento e infatti sono diventati ingegnere ed economista. Garbiñe si forma all’Accademia di Luis Bruguera, ma il gioco spagnolo tutto corsa e difesa non le appartiene: lei picchia, e picchia forte. Se ne accorge pure Serena, che a differenza della finale di Wimbledon dell’anno scorso, il loro più recente confronto diretto, non riesce più a vincere gli scambi di potenza e senza il servizio, troppo ballerino (49% di prime), è costretta a inseguire e ad ansimare, spesso annichilita dal rovescio incrociato della Muguruza, ferale nei momenti cruciali. Non solo muscoli, dunque, ma anche testa, soprattutto alla fine del nono game del secondo set, durato 10 minuti e risolto dalla Williams dopo 16 punti, quando la spagnola si ritrova a servire per vincere e ha appena sprecato quattro match point: «Meritavo di stare lì, perché ho giocato bene per tutto il torneo. Ma quando hai davanti la più forte del mondo, tutto può cambiare. La sconfitta di Wimbledon mi ha aiutata, allora ero tesa e nervosa, adesso sono stata capace di gestire le emozioni». Infatti metterà 4 punti di fila, l’ultimo con un pallonetto nei pressi della riga che fa trattenere il fiato a lei, ai 15.000 dello Chatrier ma non a Serena, squisitamente ed elegantemente sportiva nell’applaudirla per il colpo buono prima ancora che il giudice di sedia vada a verificarne il segno: «Ho perso da una giocatrice che stavolta è stata migliore di me, la differenza è in quei pochi punti alla fine di ogni set. E non tirate in ballo i problemi agli adduttori, non mi attacco a queste scuse. Semmai, devo trarre gli insegnamenti giusti per vincere la prossima volta». E tuttavia, come racconta la storia degli ultimi tre Slam, tutti conquistati da giocatrici al primo successo in uno dei quattro tornei più importanti (Pennetta, Kerber e appunto Muguruza), la Williams resta il faro ma non fa più così paura. È vero, a Parigi non l’ha favorita il meteo, con i campi umidi che le hanno sottratto potenza, ma Garbiñe l’ha battuta proprio sul suo terreno, quello della forza pura nello scambio. Con un pensiero a quanto era successo in Australia: «Mi sono detta che se c’era riuscita Angelique (la Kerber, ndr) a batterla, c’era una possibilità anche per me. E stata un’ispirazione, e in fondo credo dia speranza a tutte il fatto che ci siano facce nuove che competono a livelli così alti». Eppure, dopo la finale a Wimbledon, per la spagnola non è stato facile venire a patti con la popolarità e la pressione, anche perché l’allenatore di una vita, Alejo Mancisidor, proprio a luglio l’ha lasciata per «discrepanza di valori»: non la riconosceva più. Lei così ha scelto Sam Sumyk, l’uomo che ha fatto grande la Azarenka: «All’inizio dell’anno sapevo di non essere sulla strada giusta, ma per uscirne dovevo allenarmi ancora più duramente di quanto avessi fatto fin lì. Ero convinta di poter vincere uno Slam, ma per farlo ho dovuto ritrovare il mio gioco aggressivo e senza pensieri. Io devo stare in campo e uscire senza rimpianti». Il carattere, del resto, non le manca, se è vero che a metà del 2013, con una caviglia fuori uso, per non perdere neanche un giorno di preparazione ha recuperato il famoso metodo Muster, colpendo migliaia di palle da seduta e con la gamba immobile. Era una predestinata, si ritrova con uno Slam a 22 anni e il numero due in classifica, da domani. Nonché eroina dei due mondi: «Ho vinto per la Spagna, ma io sento di appartenere anche al Venezuela e spero di essere un esempio per tante ragazze che lì vorranno giocare a tennis». Un cuore d’oro. Ma non sbagliate a pronunciare il suo nome.
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Crollo Serena, storica Muguruza (Alberto Giorni, Il Giorno)
Il pallonetto di Garbiñe Muguruza sembra fuori; Serena Williams lo accompagna con lo sguardo, poi resta di sasso. La spagnola per qualche secondo non se ne accorge, ma la palla è buona e scoppia in lacrime, incredula, sdraiandosi sulla terra rossa: era il match-point ed è lei la campionessa del Roland Garros. L’abbraccio offertole dall’americana assomiglia a un passaggio di consegne. A 22 anni, la Muguruza ha conquistato il primo Slam in carriera, vendicando l’ultima finale di Wimbledon, e ha tante stagioni davanti a sé per confermare questo risultato: tra l’altro il suo gioco aggressivo è più adatto ai campi veloci che alla terra parigina. Da domani diventerà la numero 2 del mondo, ma per la vetta è solo questione di tempo. Il 7-5, 6-4 testimonia un netto predominio della bella spagnola di madre venezuelana. E stata a lungo in dubbio sul Paese da rappresentare, prima di scegliere la Spagna, il Paese di papà José Antonio, dove si è trasferita da quando aveva sei anni. Garbiñe in basco significa «Immacolata» e i suoi modi gentili contrastano con la grinta da leonessa che esprime in campo, piegando la Williams sul suo stesso piano, quello della potenza. Qualche patema solo al momento di chiudere: sul 5-3 del secondo set ha mancato quattro match-point, per la strenua resistenza di Serena, ma nel game successivo si è rifatta con gli interessi. Anche senza Nadal, sullo Chatrier è risuonato l’inno iberico e per una donna non capitava dal 1998 quando si impose Arantxa Sanchez, ieri presente in tribuna. Alla Williams sfugge ancora il 22 Slam e l’aggancio a Steffi Graf: a 34 anni la numero 1 continua a perdere colpi e finali, dopo quella agli Australian Open per mano della Kerber. La Muguruza ha il cuore in tumulto: «Sono emozionatissima, ho lavorato tanto per questo momento». Anche sull’albo d’oro del singolare maschile sarà inciso un nome nuovo di zecca: sarebbe una prima assoluta sia per Novak Djokovic che per Andy Murray. Sarà la «bella» delle sfide andate in scena a maggio: il serbo ha vinto a Madrid, mentre lo scozzese ha trionfato a Roma. Qui si gioca al meglio dei cinque set e Djokovic è favorito; sembra proprio l’anno buono perché Parigi è l’unico Slam che manca alla sua collezione e, dopo l’inattesa sconfitta dell’anno scorso in finale con Wawrinka, si è preparato al meglio. Pero Murray non parte battuto; il successo agli Internazionali d’Italia è stato un’iniezione di fiducia e anche lui si è convinto di poter fare grandi cose sulla terra.
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Muguruza, uno Slam a tinte rosse (Valentina Clemente, Corriere dello Sport)
«Sarebbe stato difficile far meglio, ora possiamo morire tranquilli». Queste le parole a caldo di Sam Sumyk, allenatore di Garbine Muguruza, a pochi minuti dalla vittoria della sua protetta su Serena Williams al Roland Garros e le dichiarazioni del tecnico francese riassumono perfettamente la sensazione che si è avuta guardando una sfida tra due “titani; finita con l’incoronazione della spagnola e la freschezza dei suoi 22 anni. Ventidue (Slam) doveva essere anche il numero portafortuna della numero 1 americana che invece si è dovuta arrendere dopo due set (7-5, 6-4), e diversi errori, alla forza travolgente della Muguruza, giunta in punta di piedi in finale, ma con le idee ben chiare. Lei aveva già battuto la Williams proprio su questo campo, e quando è entrata sullo Chatrier sapeva di dover gestire tutti gli errori della sua avversaria, perché un solo passo falso le sarebbe costato probabilmente il titolo. Garbine ha fatto il suo gioco, tirando e non lasciandosi intimorire dalle risposte colpo su colpo e accelerando al momento giusto. «Era importante credere nelle mie possibilità e andando avanti nell’incontro mi sono resa conto che la mia idea poteva trasformarsi in realtà. Sono una persona ambiziosa, di carattere, e mi piacciono le sfide, e scendere in campo contro Serena sullo Chatrier è stata una fonte di motivazione ancora maggiore. Non avevo paura». A differenza di quanto successo a Wimbledon, dove le due si sono scontrate lo scorso anno in finale, sulla terra di Parigi Garbine ha tirato fuori tutta l’esperienza necessaria e, contro una Williams non al massimo, non si è lasciata intimorire dai suoi tentativi di rientrare in partita. «Sono diventata meno emotiva rispetto a qualche tempo fa. Credo di più in me stessa e credo di meritare di essere qui, perché ho lavorato duro per arrivarci e i risultati si sono visti in campo». La chiave della partita è stato nel carattere della spagnola e forse il tecnico francese ha trovato le motivazioni giuste per lei: «Lui è la voce dell’esperienza per me». Tra i dettagli di questa vittoria ce n’è uno tutto particolare: nell’album di Garbine, da domani 2 del mondo, finora la terra non era mai entrata in bacheca (2 vittorie, Pechino nel 2015 e Hobart nel 2014) e quasi per assurdo il primo sigillo oggi le appare ancora più bello. «Non so come sia successo, ma posso dire che ho sempre fatto bene a Parigi, raggiungendo due volte i quarti, ma aprire questo capitolo con questo trofeo è ancora più bello». Ora per la spagnola sarà il tempo della presa di coscienza di un passo decisamente importante in carriera, mentre per Serena forse sarà necessario un altro momento di distacco, soprattutto in vista di Wimbledon. Il record della Graf sembra diventato stregato, ma chissà se proprio a Londra la numero 1 al mondo potrà sciogliere questa sorta di sortilegio. Quello che è certo è che la Williams uscita dal campo è apparsa ancora una volta provata, sia da uno stato fisico probabilmente imperfetto, che da una nuova sconfitta «Nel primo set Garbine ha vinto per un punto – ha affermato l’americana – ma poi ha fatto la differenza nei momenti importanti. Io da parte mia ho avuto tanti vuoti: avrei potuto servire meglio, ho sbagliato troppe risposte, difficile fare un’analisi completa perché il suo stile era diverso rispetto a quello delle avversarie precedenti. Lei ha un grande futuro davanti, io da parte mia mi prenderò del tempo per riflettere su quello che è successo»
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Djokovic e Murray, ci risiamo (Valentina Clemente, Corriere dello Sport)
Uno è alla sua quarta finale, l’altro è il primo inglese ad arrivarci dal 1937. Eppure Novak Djokovic e Andy Murray stanno monopolizando il tennis in questi ultimi mesi e dopo la sfida in Australia dello scorso gennaio, e quella di Roma del 15 maggio, si ritrovano ora per giocarsi un altro Slam, che manca al palmares di entrambi. Il serbo ha un rapporto contrastato con il torneo parigino perché vi è arrivato più volte da favorito e più volte gli è sfuggito di mano. Lo scozzese invece ha scoperto quasi alla soglia dei trent’anni che la terra non è poi così male, trasformandosi e adattandosi fino a diventare uno dei migliori su questa superficie. Eppure per Murray il cammino è stato lungo, tanto che per anni la stagione che portava al Roland Garros era più una tortura che altro, ma per molti del suo entourage era solo un scoglio mentale e, come ha confidato il suo ex allenatore Alex Corretja a L’Equipe, doveva essere Andy a capirlo. L’illuminazione è giunta, sotto la guida di Amelie Mauresmo, con il suo primo titolo a Monaco di Baviera e poi la prospettiva positiva ha preso una dimensione completamente differente, tenendo in conto ovviamente anche l’operazione alla schiena. E’ stata proprio questa che gli ha permesso di capire per la prima volta la bellezza di un gioco meno rapido ma pieno di sfumature nei cambi di direzione in scivolata. Un piacere che oggi salta agli occhi e che si è visto nell’emozione che scendeva carica dal suo volto dopo la vittoria contro Stan Wawrinka: «Sono riuscito a gestire bene i momenti di tensione durante la semifinale, ma è chiaro che raggiungere l’ultimo gradino qui al Roland Garros è qualcosa di davvero importante, soprattutto per come erano iniziate le cose due settimane fa». Anche Novak, per tentare di portare a casa il titolo, dovrà innanzitutto vincere la battaglia contro se stesso e forse finalmente potrà sedersi accanto a coloro che, in un modo o in un altro, hanno messo insieme tutti i quattro Slam, aspettando ovviamente l’esito di Wimbledon e US Open. Ma la strada per scrivere quel capitolo è ancora lunga e prima bisogna puntellarla con il titolo parigino.