Immaginatevi una mucca al pascolo, placidamente impegnata a strappare e ruminare erba con la flemma che contraddistingue questo serafico bovino. La vedete? La coda che ondeggia e scaccia qualche mosca, la mascella con il suo movimento vagamente circolare e, di tanto in tanto, qualche passo per cercare un’altra porzione di prato verso cui rivolgere il proprio interesse. Improvvisamente, per un’asperità del terreno, la mucca inciampa e rischia di finire con il muso in terra quasi senza rendersene conto. Ecco, questo (non senza un pizzico di enfasi descrittiva, di cui chiedo immediatamente venia) è più o meno il quadro con cui Rod Laver descrive lo stato del campo centrale del West Side Tennis Club di Forest Hills nell’estate del 1969, quando l’australiano vi si recò per cercare di conquistare il suo secondo Grand Slam, il primo da professionista. Si giocava, allora come in passato, sull’erba e l’erba di Forest Hills, come probabilmente avrete intuito, non era proprio un tavolo di biliardo. Ma, come al solito, i pensieri viaggiano veloci e hanno fretta di tirare le somme quando invece avrebbe più senso girare il collo e guardarsi indietro. Perché è sempre la storia a tenderci la mano e aiutarci a capire meglio.
Il brodo primordiale bollì a Central Park West, tra l’88esima e l’89esima strada. Era il 22 aprile 1892 e tredici intrepidi avventurieri fondarono il West Side Tennis Club, che constava di tre campi in terra inaugurati un mese e mezzo più tardi. Con 20 dollari l’anno potevi giocare a tennis nel cuore di Manhattan. L’iniziativa attecchì subito, tanto che alla fine della stagione i membri erano più che triplicati, vennero aggiunti altri due campi e costruita una sia pur spartana club-house con tanto di spogliatoi e docce. Fredde. Poco più di tre lustri dopo, il club aveva già cambiato collocazione un paio di volte; dapprima si trasferì nei pressi della Columbia University poi, nel 1908, tra la 238th Street e Broadway. La crescita esponenziale del West Side venne premiata, tra il 9 e il 12 settembre di tre anni dopo, con la possibilità di ospitare la finale della Coppa Davis contro le Isole Britanniche. Gli Stati Uniti persero il doppio ma fecero il vuoto nei singolari grazie a Maurice McLoughlin, la “Cometa della California”, e William Larned. Quest’ultimo, vincitore di sette campionati nazionali tra il 1901 e il 1911, ricevette in eredità dalla sua attiva partecipazione alla guerra ispano-americana l’artrite reumatoide, la cui recrudescenza lo costrinse al ritiro dall’attività proprio all’indomani di quella finale per l’insalatiera. Ma stiamo divagando.
Torniamo dunque al West Side e alle conseguenze della sfida con le Isole Britanniche. Le migliaia di persone accorse per l’avvenimento misero a nudo i limiti dell’attuale sistemazione. “Se vogliamo continuare ad ospitare manifestazioni del genere, dobbiamo metterci nelle condizioni che il pubblico possa assistervi numeroso”: questo fu il monito che emerse dall’assemblea dei soci e che motivò la creazione di un comitato incaricato di individuare il luogo più adatto alle esigenze del club. Venne stilato un primo elenco che comprendeva una trentina di luoghi, poi ridotti a tre: Bronx, Kew Gardens e Forest Hills. Il 3 dicembre 1912 la scelta cadde su dieci acri di terreno adiacenti la stazione di Forest Hills che vennero acquistati con un acconto di 2.000$ e un mutuo di 75.000$. Il quartiere, edificato secondo i piani di Frederick Law Olmsted, uno dei primi architetti paesaggisti e ambientalisti nella storia degli Stati Uniti, si distingueva per la sua armonia ed era caratterizzato dalle costruzioni in tipico stile Tudor. Dovendosi integrare all’ambiente circostante, anche la club house del West Side (costata 25.000$) venne costruita con quei dettami e, dal 1913, farà da quinta inconfondibile al tennis giocato a Forest Hills. Sarà la USTA a far compiere l’ultimo passo verso la storia al West Side Tennis Club, trasferendovi da Newport i National Championship (gli attuali US Open) nel 1915. E nel 1923 venne edificato lo stadio, che negli Anni Sessanta avrebbe visto le sue gradinate riempirsi sia di appassionati di tennis che di musica.
Indimenticabile, per certi versi, ciò che accadde venerdì 28 agosto 1964. Doveva essere un segreto ma New York ha grandi orecchie e quando arrivarono all’aeroporto Kennedy alle 3 del mattino, c’erano almeno tremila fans ad attenderli. Una di loro, Angela McGowan, nel caos durante il tragitto verso l’Hotel Delmonico si trovò tra le mani la medaglietta di San Cristoforo di Ringo Starr. Tutta quella gente era lì per loro, per i Beatles, e nel caos, con la polizia che stentava a mantenere l’ordine, la ragazza si era avvicinata al batterista per toccarlo e gli aveva strappato, più o meno volontariamente, la catenina. Ringo denunciò l’accaduto e, trattandosi di un oggetto a cui teneva particolarmente, promise un bacio a chi gliel’avesse restituito. Angela lo raggiunse alla conferenza stampa del pomeriggio e l’incidente venne risolto con buona soddisfazione di tutti. I Beatles arrivarono al Forest Hills Stadium con più di un’ora di ritardo, perché il pilota dovette attendere il permesso di partire, ma quando scesero dall’elicottero e si sistemarono sul palco, 15.983 indemoniati (sold-out, naturalmente) li acclamarono e urlarono come dei pazzi sulle prime note di “Twist And Shout”. La sera successiva ci fu la replica e in precedenza, in quell’estate del ’64, si erano esibiti lì, nel tempio del tennis americano, Barbra Streisand, Harry Belafonte (con Miriam Makeba) e Joan Baez.
Negli anni a venire e fino al 1990, le migliori racchette e i migliori microfoni si sarebbero alternati su quel campo e noi ora proviamo a concentrarci sulle prime, ché dei secondi lasciamo parlare altri. E torniamo alla mucca di Rod Laver e alle condizioni del prato dello Stadium, sempre peggiori ogni anno che passava. C’erano, alla base, enormi problemi di drenaggio e bastavano due giorni di pioggia continua per trasformarlo in una sorta di palude. La spallata decisiva gli venne data dalla rivoluzione del 1968, anno in cui vennero abbattute le barriere tra amatori e professionisti e l’indice di gradimento del tennis prese a salire vertiginosamente. Quando anche la circolazione dei soldi prese ad aumentare progressivamente e la salute degli attori dello spettacolo divenne di primaria importanza (non che prima non lo fosse, ovvio…), non era più possibile tollerare campi in quelle condizioni. Durante la finale del 1973 tra John Newcombe e Jan Kodes, lo speaker chiese al pubblico di farsi sentire con urla e applausi per votare a favore del mantenimento dell’erba o del cambiamento. A suo dire l’80% degli spettatori optò per l’erba ma Jack Kramer, che stava commentando la partita per la CBS, disse che se lo stesso sondaggio fosse stato fatto tra i giocatori ci sarebbe stato un plebiscito per il cambiamento. E l’anno dopo fu l’ultimo dell’erba.
Ed è qui, nel 1975, che in un certo senso inizia la nostra storia.
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