Dal nostro inviato a Londra
Grazie per la disponibilità, Alex. Sei rimasto qui nonostante l’infortunio?
Sì, sono ancora un po’ acciaccato, quindi ho preso la decisione di non tornare in campo troppo presto. Sono rimasto qui per allenarmi.
Pensi di rimanere a Londra fino a Wimbledon?
No, ho ancora in programma di giocare a Nottingham. Partirò venerdì, fino a quel giorno sarò qui.
Te la senti di giocare quel torneo, quindi.
Vedremo. Oggi è stato il primo giorno in cui sono sceso in campo nelle ultime quattro settimane e non ho ancora iniziato a servire, perché ho avuto un problema alla schiena. Spero di riuscire a giocare qualche match almeno lì. Penso che l’erba sia la miglior superficie su cui posso tornare da un infortunio, perché i punti sono brevi: fisicamente non sono al massimo della forma, ultimamente non potevo neppure correre.
La tua carriera è costellata di questi infortuni. Pensi che siano connessi tra di loro, in qualche modo?
Non credo. Ho fatto un movimento sbagliato servendo, e quando sono atterrato ho sentito uno schiocco nella schiena. Non vedo connessioni, di solito me ne capita uno ogni anno e mi impedisce di giocare per due-tre settimane. Però sono tutti completamente diversi tra di loro.
Adesso la smettiamo di parlare di infortuni, promesso.
(Sorride.) Di certo senza di loro avreste visto un Alexander Dolgopolov diverso, migliore. L’anno scorso ho giocato le semifinali di Cincinnati e mi sono fatto male la settimana successiva, la stagione precedente ero intorno al numero 10 nella race al momento di Wimbledon e mi sono dovuto operare al ginocchio… un mese fuori, un mese per riprendere a giocare al tuo livello… però il mio corpo è fatto così. Lo prendo per quello che è.
A questo proposito: è difficile identificare il tuo gioco, fare paragoni, ma ora che sei a una certa fase della tua carriera noti una evoluzione? Un percorso?
Se guardi con attenzione puoi trovare degli indizi: dei posti mi piacciono più di altri, ho colpi migliori e meno buoni… il punto è che non ho molti colpi meno buoni, in realtà. È questo che mi ha reso imprevedibile. Non uso un solo colpo per coprire tutto il campo, ma adesso ho imparato quali colpi preferisco giocare e quali mi piacciono di meno. Col passare degli anni ogni giocatore riesce a capire come gli viene più naturale giocare, cosa fa nei momenti importanti, dove serve in quei momenti e così via.
E nel singolo incontro? Hai una strategia precisa?
Ho un piano generale, basato sul mio gioco. Se funziona, se sono aggressivo e gioco bene, non fa la minima differenza chi io abbia di fronte. Se a un certo punto non funziona e mi accorgo che non sono a mio agio, cerco di capire cosa mette a disagio l’avversario.
Quei colpi sorprendenti, che soltanto tu e pochissimi altri tennisti contemporanei giocate, quelli che fanno fare “wow” al pubblico? Nascono perché dici a te stesso: “Adesso non gioco un colpo in sicurezza, adesso lascio tutti di sasso”?
Mmh… molti di questi colpi arrivano quando sono in una posizione difficile, quindi non sto lì a pensare, ad esempio che potrei giocare un colpo più sicuro. Quando ho una palla facile per chiudere, o una palla importante, di solito cerco la soluzione più semplice. I colpi meravigliosi vengono fuori quando sono lontano dalle righe e colpisco a tutto braccio, improvvisando. (Sospira.) Non saprei dire, ma credo che in un’era tennistica differente sarebbe stato più facile per me. Le superfici erano più veloci, la palla viaggiava di più… adesso tutto gira attorno alla solidità. Per me che amo colpire vincenti non è facile.
Temo che il tempo a nostra disposizione sia agli sgoccioli, dovrò sacrificare qualcuna delle tre pagine di domande: Olimpiadi? Sì o no?
Uh, mi dispiace. No, comunque, andrò ad Atlanta e a Los Cabos. Ho sentito che c’è un qualche virus pericoloso in Brasile, preferisco non rischiare. Non vorrei aggiungere un’altra strana malattia alla lista, hai visto come è lunga. (Ride.)