Guardandola in campo non si aveva mai l’idea di tranquillità. La vedevi saltellare furiosamente fra un punto e un altro, mimando ora il rovescio ora il dritto bimane, senza sosta, quasi che non volesse fermarsi a pensare. Il tempo non se lo prendeva neanche al servizio, accompagnato da un singolare gesto tecnico ed effettuato senza aver fatto mai rimbalzare la pallina. E poi il pugnetto, frenetico e puntuale dopo ogni quindici vinto.
No, Marion Bartoli tennista non era un inno alla tranquillità e la sua storia personale, del resto, non glielo permetteva. Cresciuta a Retournac, un posto abitato da duemila anime nell’Alta Loira, un posto in cui non si sentiva a proprio agio, tra gente da lei considerata invidiosa e meschina, Marion non ha vissuto un’infanzia simile a quella delle sue compaesane. Sotto la guida del padre, ex medico auto-professatosi guru tennistico, Marion ha iniziato ad allenarsi ancora bimba, in un campo tanto piccolo da costringerla a giocare poco al di là della metà campo per evitare di colpire le reti circostanti oltre alle palline.
Già, le palline. Quelle usate dal padre di Bartoli, Walter, non erano solo le comuni palline gialle a cui siamo abituati. Variavano nei colori e nello stato di consumazione, per permettere a sua figlia di allenare la coordinazione braccio-testa e per abituarla ad ogni tipo di rimbalzo. E non erano lì solo per essere colpite. No, le palline servivano anche per essere attaccate alle piante dei piedi ed ai talloni di Marion, per simulare un effetto “tacchi” che le permettesse di mantenersi con le sole punte. Gli allenamenti erano tosti, anche perché Bartoli non aveva la predisposizione naturale ad essere un’atleta. Nelle competizioni scolastiche di corsa era costantemente ultima, così come nei giochi che richiedevano coordinazione. Gli studi, a parte l’educazione fisica, non hanno mai però rappresentato un problema per Marion, diplomatasi con due anni d’anticipo e vantatasi una volta di avere a 9 anni un QI di 175 (per capirci quello di Einstein sarebbe stato di 164). La madre Sophie era invece una figura distante, più attenta ai problemi che il fratello pare avesse a scuola. Con lei Marion sosteneva di sentirsi poco più che un fantasma. E poco più che un fantasma lo era anche per la federazione francese di tennis, poco incline a credere che delle tecniche d’allenamento inventate da uno che il tennis lo aveva visto giusto da spettatore potessero davvero poi condurre da qualche parte. Le difficoltà nell’instaurare un rapporto non venivano però solo della federazione, ma erano anche frutto della convinzione del padre Walter di essere l’unico in grado di capire di cosa avesse bisogno la figlia.
Marion cresce perciò isolata sia nell’infanzia che nel passaggio da adolescenza a maturità, lontana da figure che non fossero il padre. Le altre tenniste francesi sostenevano che non riuscisse ad andare d’accordo con le colleghe, che non riuscisse a diventare parte di un gruppo. In Fed Cup, del resto, non poteva giocarci per il no secco della federazione alla presenza del padre agli allenamenti. Quel che restava a Bartoli era riuscire a far vacillare i dubbi dei critici suoi e soprattutto di suo padre, seguendo il mantra: “Dimmi che non posso e ci riuscirò”. Il sogno dichiarato, a cui credevano forse giusto lei e il padre, era vincere uno Slam.
Così, stagione dopo stagione Marion migliora, costruendosi un fisico che si adattasse al suo gioco. Bartolì aveva infatti bisogno di potenza: la velocità e l’atletismo non erano il suo forte e non avrebbero mai potuto esserlo. Da junior, quando vinse lo US Open del 2001, Marion era piuttosto esile e contro delle ragazzine poteva permetterselo. Da pro, invece, la mancanza di potenza faceva la differenza e per i primi anni, mentre le sue ex rivali junior come Kuznetsova e Sharapova progredivano prepotenti aiutate da un fisico più prestante, lei faceva fatica. Fino all’edizione 2007 di Wimbledon, quella che le cambiò la vita. Nel 2006 aveva finalmente fatto l’ingresso nelle top 20, il gioco era diventato più potente ma sempre rapido e anticipato. In quell’edizione Marion sconfisse Pennetta, Jankovic e soprattutto Henin (all’unica sconfitta dell’anno in uno Slam). Nulla riuscì in finale contro Venus, troppo più forte e troppo più abituata ad un palcoscenico del genere.
Marion era riuscita quindi a dimostrare ai critici che sì, si sbagliavano. Forse i metodi improvvisati non erano poi così folli; forse quella relazione quasi patologica fra padre e figlia non era poi così morbosa. Tuttavia, lasciato un problema ecco presentarsene un altro. Le luci della ribalta sono terribili: ti portano davanti agli occhi del mondo, ma poi ti scrutano in ogni tuo dettaglio. È così che i giornali, venuti a conoscenza dell’esistenza di Bartoli, iniziarono a concentrarsi sul suo aspetto fisico. La Gazzetta titolava: “La francese (…) è nei quarti a Wimbledon pur non essendo bella o appariscente come le sue colleghe”, come se l’essere belle o appariscenti fosse una conditio sine qua non per raggiungere i quarti di Wimbledon. Il New York Times citava reporters che la definivano “grassa, tarchiata e con l’aura atletica di una commessa”. Marion rispondeva: “Quando mi guardo allo specchio mi sento felice, ed è questa la cosa più importante, non quello che gli altri pensano di me”. Le acque poi si calmano. Marion resta a cavallo della top 10 per un po’ di anni, ma non riesce più a ripetere l’exploit di Wimbledon. Titoli di giornale o anche solo tweet su di lei, peraltro rimasta senza sponsor, sono difficili da trovare, fatta eccezione per una gaffe andata in onda sulla TV francese. Un “Bartoli est grosse” che ebbe ampia eco mediatica e che la costrinse a dover rispondere a domande sul suo aspetto fisico.
E poi ancora poche luci fino al gran finale: la vittoria di Wimbledon 2013. In quelle settimane succede di tutto, in campo e fuori…
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