Se 4 tornei vi sembran troppi (Gianni Clerici, La Repubblica)
«Perché non lo facciamo?» mi chiese il mio povero amico Bud Collins. «Perché non facciamo un libro sul Grande Slam. I0 ho scritto The History of Tennis, tu 500 Anni di Tennis. Potremmo fare un libro su chi ha vinto tutti e quattro i Grandi Tornei, e su chi non ci è riuscito». «Vuoi spingere ancor oltre la nostra frustrazione di tennisti e romanzieri falliti?» risposi io. «Ma ci pensi che 500 Anni mi è costato tre anni, il tuo mattone non di meno. Facciamoci qualche partitina tra noi e piantiamola lì, col Grande Slam». Il giorno seguente, tuttavia, eravamo in auto, vicino a Melbourne, per andare a incontrare Jack Crawford e cavarne due interviste, lui sul Boston Globe, io sul Giorno. Nel corso dell’intervista, Collins gli chiese se, nel 1933, quando fu sconfitto agli US Championship dal britannico Fred Perry, dopo aver vinto i primi tre Grandi Tornei, si fosse reso conto di essere vicinissimo al Grande Slam. Rispose di no. Non aveva letto i cronisti Allison Danzig, sul Brooklyn Eagles, e John Kieran, che avevano entrambi scritto «Se Crawford vince, sarebbe come segnare un Grande Slam nel bridge». Crawford ebbe la cortesia di spiegarmi che Grande Slam a bridge equivaleva a ben tredici prese a danno dell’avversario, cioè il massimo possibile in quel gioco. Quando gli chiesi se era vero che l’unico game rimediato nel quarto e quinto set, dopo il riposo, fosse dovuto a un bicchierino di whisky bevuto, lui (che era astemio), sorrise: «Forse non mi è stato d’aiuto. Ma avrei perso comunque quella finale. Ne riparlammo con Allison Danzig, quando Bud e io l’andammo a trovare nella Casa per anziani in cui trascorreva i suoi ultimi giorni. E ci disse che la faccenda del whisky era autentica, ma che forse non era stata l’unica ragione di quel Grande Slam perduto. Da allora, 13 tennisti e 18 tenniste sono arrivati a conquistare tre tornei su quattro, mentre solo tre uomini e tre donne hanno concluso un’annata di totale superiorità. Mi pare tuttavia il caso di una modesta osservazione storica a proposito del Grande Slam. Simile definizione, e relative statistiche, sono valide soltanto a partire dal 1968, anno in cui è nato il Tennis Open, e cioè il tennis aperto a tutti. Allora, nell’anno di nascita, la partecipazione era stata completa, ma si sarebbe via via rarefatta con l’istituzione del professionismo, vietato ai cosiddetti dilettanti, ai quali era proibita la possibilità di ricevere denaro in cambio delle loro esibizioni sul campo. Il primo che fu tanto bravo da realizzare il Grande Slam si chi amava Donald Budge; lui si avvantaggiò della vecchiaia sportiva di Crawford e soprattutto del passaggio al professionismo di Fred Perry, che quindi fu inabilitato a competere nei tornei. Passata la guerra, i casi di sommi tennisti che non raggiunsero il Grande Slam per aver preferito il denaro alla gloria aumentò: dal 1945 al 1961, l’americano Jack Kramer, il messico-americano Gonzales, l’australiano Lew Hoad, probabilmente i più forti del mondo nei loro anni ruggenti. L’ultimo dilettante a realizzare il secondo Grande Slam ufficiale della storia, nel 1962, fu Rod Laver. Laver rimase poi tra i professionisti sino allo storico anno della riunione tra le due caste, il 1968, e subito replicò il Grande Slam l’anno seguente, il ’69. I record femminili non sono più attendibili di quelli degli uomini, perché la traversata dell’Atlantico, quando gli aerei erano ancora delle sorti di aquiloni, non raggiungeva l’Australia per il primo Grande Slam dell’anno, e una nave, dall’Europa, impiegava sette settimane. Suzanne Lenglen, secondo me la più grande tennista mai nata, non andò dunque mai in Australia, e solo una volta negli Usa. Helen Wills, la sua grande avversaria, si limitò a venire in Gran Bretagna e vincervi otto Wimbledon, ma l’Australia la vide in cartolina. Nonostante tra le donne – non per Lenglen – fosse insolito il professionismo, si dovette aspettare l’americana Maureen Connolly, nel 1953, per avere le prima delle tre laureate, seguita dall’australiana Margaret Court nel 1970, e dalla tedesca Steffi Graf nel 1988. Maureen fu tanto regolare da non sbagliare quasi mai, fu quasi forte come un uomo. Margaret Court, sposata Smith, fu la prima autentica atleta tra le donne, negli anni in cui il tennis australiano scopri l’atletica leggera, vicenda che trasformò il tennis da un gioco in uno sport. Ho ancora negli occhi Margaret che si allenava nel salto del canguro, ginocchia flesse al petto, per dieci minuti, prima di scendere in campo. Ho parlato di sport olimpici, e questo mi spinge a ricordare Steffi Graf, che ebbi la fortuna di ammirare bambina. A conferma del suo grande talento atletico, ricordo una mattina alle Olimpiadi in quel di Seul nel 1988 in cui, andando a cercare qualche scuppettino al campo di allenamento, vidi d’improvviso Steffi che, invitata dagli amici tedeschi sulla pista, batteva, indossando le scarpe da tennis, le due atlete delle Germania Ovest che avrebbero partecipato ai centodieci ostacoli. Senza aver mai provato a saltare, senza aver mai corso un cento metri nemmeno alle elementari. Per lei questa incredibile performance fu naturale come per noi una corsettina per prendere l’autobus. E le fu altrettanto naturale prendere la medaglia d’oro insieme ai quattro titoli dello Slam di una stagione tuttora ineguagliata, forse ineguagliabile. Simile aggettivo mi spinge a parlare dei record mancati. In questo elenco sono compresi i Campioni contemporanei, Federer giunto 3 volte nei pressi del Grande Slam, Djokovic due, Nadal uno. E, insieme, quella che ci è andata pin vicina di tutti, Serena Williams, eliminata l’anno scorso da Robertina Vinci e da un segreto che, forse, solo un allievo del dottor Freud (tennista, lo sapevate?) potrebbe spiegarci. Mi rileggo, e mi dico non solo che ho esaurito lo spazio, ma che quest’anno nessuno sarà in grado di realizzare un nuovo Grande Slam. Mi dico anche che il mio povero Bud Collins aveva ragione. Forse avremmo dovuto passare qualche mese a scrivere quel libro.
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Le mani della Pennetta nell’urna degli U.S. Open (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)
Roger Federer sta bene. Ha ricominciato ad allenarsi dopo lo stop per l’infortunio al ginocchio e non vede l’ora di tornare a sfidare Djokovic e Co. Purtroppo però, non sarà agli Us Open – che partono lunedì e dove oggi si sorteggerà il tabellone, con madrina di lusso Flavia Pennetta – ma ai prossimi Australian Open, nel gennaio 2017. Magari un po’ prima. «Non avrei mai immaginato di vivere un anno così, non andare a Rio ed essere qui New York senza poter giocare è dura», ha spiegato il Genio durante ii lancio della Laver Cup, esibizione di lusso in cui l’anno prossimo giocherà anche a fianco di Rafa Nadal in doppio. «Il ginocchio sta bene, cercherò di essere forte già per l’Hopman Cup e per gli Australian Open. Roger si perderà dunque la prima edizione potenzialmente “indoor” dello Slam americano: sul centrale verrà inaugurato il nuovo tetto retrattile, gioiello di un restauro dell’impianto di Flushing Meadows da completare entro il 2018 che prevede anche l’ammodernamento del Grand Stand e l’abbattimento del vecchio centrale Louis Armstrong. Secondo Federer il favorito nel maschile resta Novak Djokovic, campione in carica e testa di serie n.1, nonostante le non perfette condizioni fisiche (polso sinistro) e la recente delusione di Rio, e non Andy Murray, il n.2 in grandissima fiducia dopo i trionfi di Wimbledon e il secondo oro olimpico. Wawrinka è la testa di serie n.3, e per un Nadal in recupero c’è la n. 4. La mano di Flavia deciderà chi avrà in sorte Nole nella sua metà di tabellone. Con Berdych fuori causa appendicite, Del Polio, Cilic e Nishikori sono gli outsider. Nel femminile Serena Williams, n.1 per il quinto anno di fila, deve difendere il primato in classifica e insegue lo Slam numero 23. La incalzano Angelique Kerber, Garbine Muguruza e Agnieszka Radwanska, mentre la Azarenka è assente causa gravidanza. Per l’Italia Fognini, Seppi e Lorenzi sono in tabellone fra i maschi, mentre nel femminile ci sono la finalista 2015 Roberta Vinci (testa di serie n.7), Sara Errani (28), Karin Knapp, Camila Giorgi e Francesca Schiavone. Flavia, mi raccomando, dacci una mano.
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Vinci k.o. a New Haven. Fabbiano vede New York (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)
Niente da fare per Roberta Vinci. L’azzurra, numero 8 al mondo e finalista allo Us Open dello scorso anno, è stata eliminata dalla svedese Johanna Larsson nei quarti di finale del “Connecticut Open”, il Wta Premier che si gioca a New Haven. Dopo un primo set molto combattuto, che aveva visto subito la Vinci sotto 3-0, l’azzurra ha reagito bene portandosi sul 3 pari, ma l’ottavo game è fatale e Roberta subisce un altro break, con la Larsson che si trova a servire per il set sul 5-3. La svedese spreca, la tarantina riprende vigore e si riporta sul 5-5. Si va al tie break con Roberta che allunga fino a 4-1, ma ancora una volta viene rimontata e poi superata dalla Larsson con cui già l’anno scorso si era incontrata (vincendo) proprio in Connecticut, nelle qualificazioni. Nel secondo set non c’è storia, con la Vinci che appare molto provata dalle fatiche del primo parziale e che forse risente di un problema al piede sinistro. Dall’1-1 la svedese conquista cinque giochi consecutivi e ii match si chiude 7-6(9) 6-1 a suo favore. Per la 28enne svedese numero 96 al mondo e ripescata come lucky loser, si tratta della terza semifinale stagionale dopo quelle di Hobart in Australia e di Bastad, in casa. Roberta Vinci non conquistava i quarti di un torneo da Stoccarda, lo scorso aprile, ora per lei appuntamento a Flushing Meadow, e ai suoi dolci ricordi. A New York potrebbe approdare anche Thomas Fabbiano, che ieri si è qualificato al turno decisivo delle qualificazioni maschili degli US Open, al via lunedì. Il 27enne pugliese ha sconfitto per 61 62 il belga Yannik Reuter: ultimo ostacolo oggi il colombiano Alejandro Gonzalez.