La stagionalità del tennis è rigorosa e balla al ritmo dei fusi orari. Quando si gioca da queste parti non è mai necessario uscire dalla zona di comfort, basta accendere la tv e lasciare che gli occhi alternino i soliti movimenti cadenzati per seguire la pallina. Mentre la giornata trascorre, il tennis è un compagno discreto che si sbraccia sullo sfondo e cerca di attirare la tua attenzione. 30-30, caffè. 6-3 4-2, è quasi ora di cena ma tanto ora chiudono. 7-6 6-7 5-5, partita vibrante ma purtroppo mi tocca accompagnare mio figlio a scuola calcio (fargli guardare tutti gli ATP 500, no, non serve. Lui preferisce sempre il cuoio al feltro).
Il tanto chiacchierato swing asiatico invece costringe alle levatacce e quindi presuppone una scelta ponderata, consapevole. Il match di apertura del giovedì di Pechino non lo guardi per sbaglio, non c’è modo di nascondersi dietro un vago “mi ci sono trovato, ero lì“. La sveglia puntata alle 6 di mattina è l’arma di un delitto che non puoi omettere di aver commesso, né probabilmente evitare di commetterlo una seconda volta. La comodità non abita in una secca sconfitta di Tomic contro Carreno Busta, e vai a capire come diavolo abbia potuto perdere. Eppure ci ricascherai.
Niente però ha il fascino dei due Major che aprono e chiudono la stagione. Divisi da un intero planisfero, sono agli antipodi per prospettive della vigilia – Melbourne è la prima occasione di una stagione che ne offrirà tante altre, New York profuma di ultima opportunità – e carburante nei serbatoi, pieni per tutti in Australia e prossimi all’esaurimento in terra statunitense. Diversi, ma accomunati dalla necessità che impongono a noi europei di modificare i ritmi giornalieri: quando arrivano, tocca assaporare il tennis della notte.
Gli Australian Open sono una classica ciclistica che propone subito una salita. Il programma inizia durante la notte e fa immediatamente selezione, molti si staccano perché contano di salire al proprio passo ma recuperare non è mai facile, gli scambi si accumulano e si finisce inevitabilmente col perdere il treno giusto. Gli US Open invece t’illudono di essere più accessibili, partono col sole quando sei ancora pieno di energie e ti accompagnano fino all’ultimo pasto della giornata, poi dopo una pausa beffarda scollinano oltre la terza serata e ti sfibrano fino all’incombere del buio anche nel piccolo pezzetto di cielo concesso alla vista dall’imponenza dell’Arthur Ashe, quando la forbice oraria tra te e il tennista che sta servendo sembra essere scomparsa.
Il brutto degli Slam su cemento però è anche il bello degli Slam su cemento. Ci sono partite che qui in Italia vanno seguite nel cuore delle tenebre se si vuole che colpi e dinamiche di gioco risultino inediti, se si vuole evitare che il pur prezioso ausilio degli highlights restituisca la mattina seguente quella sensazione di aver mancato un appuntamento, di aver dissotterrato un tesoro già saccheggiato. A prescindere dal valore della partita, dalle emozioni che suscita, dall’importanza dei protagonisti in campo quello che poi succede è che vorresti congedarti ma la notte ti ha scelto. L’irresistibile magnetismo del tennis notturno sta nel silenzio che ti circonda mentre le pupille si affannano a seguire gli scambi privati del sonoro, per evitare non solo di disturbare chi non ti ha accompagnato nella scelta – un po’ folle – ma soprattutto per non rischiare di condividere un momento che tutto sommato vuoi rimanga soltanto tuo. E allora non è così importante che in campo l’equilibrio stia latitando, che Edmund stia provando a sfondare con la potenza tal Djokovic, il Signore della risacca, riuscendo alla fine a vincergli appena un game ogni 17 minuti. Così come non ti aveva allontanato dallo schermo, mesi prima in un buio più rigido, la tenera resistenza opposta da uno Zverev ancora inconsapevole dei propri mezzi a un Murray troppo occupato a guadagnarsi l’ennesima finale dal destino segnato. Il tennis giocato conta fino a lì, quando sei il testimone della notte.