Ha vinto il Roland Garros, e scusate se è poco. Il trionfo arraffato in maggio sulla terra del Philippe Chatrier scombussola non poco i piani di chi, armato di statistiche e livore, vorrebbe iniziare a demolire il fresco curricolo di Garbiñe Muguruza. Eppure qualche argomentuccio i detrattori lo avrebbero anche. Essi partono da un dato, più o meno incontrovertibile: lungi dal voler ammassare supposizioni sommarie e funzionali a sostenere tesi di comodo, è possibile constatare come la bella Garbiñe sia affetta da una pericolosa patologia nota ai più con il nome di “sindrome della pancia piena”: messo in cascina un alloro, o un risultato comunque importante, ella fatica nei mesi seguenti a offrire prestazioni dello stesso livello, finendo per subire cocenti sconfitte contro giocatrici che erano state sue docili vittime poche settimane prima. La tennista di origine venezuelana, da anni attesa tra le promesse stelle del circuito, è comparsa sulle prime pagine dei giornali, anche e soprattutto di quelli non specializzati, grazie alla finale raggiunta a Wimbledon lo scorso anno e persa contro una Serena Williams lanciata verso il sogno poi infranto del Grande Slam. Conquistato il prestigioso rango di finalista major, Muguruza aveva fallito in toto l’appuntamento con l’estate sul cemento nordamericano e, probabilmente spaventatasi, aveva optato per cambiare mentore, individuando in Sam Sumyk il prestigiatore in grado di trasformare il suo status da solida speranza a stabile campionessa. In effetti il centro grosso è arrivato presto, ma il primo slam della carriera non ha aiutato a dissipare i dubbi che sempre più spesso aleggiano attorno a Mastro Sam.
Non vorremmo turbare i sonni della numero uno di Spagna, che hanno frequenti motivi d’essere turbati già per loro conto. Perché l’annata, prima e dopo Parigi, è stata disgraziata e disagevole, e gli indizi non lasciano sperare in un finale migliore. Recatasi a Linz con l’intenzione di arraffare i punti di cui ancora necessitava per volare a Singapore, Muguruza s’è girata una caviglia nel terzo set del complicato quarto di finale contro l’originalissima Viktorija Golubic, ennesima giocatrice di mezza classifica in grado d’incepparne il motore. Ruzzolata a terra e in lacrime, la Nostra si è ritirata temendo di aver compromesso l’appuntamento clou di fine stagione, ma la diagnosi pare non essere malevola: l’origine dei suoi grattacapi sembra vada cercata altrove, e non vorremmo che l’indagine si concludesse con successo dopo una perlustrazione della zona intorno a Lorient.
E dire che il pedigrée di Sumyk è di prim’ordine, nessun dubbio. Preparato, vincente e provvisto di un fascino tenebroso che non guasta, l’allenatore bretone in carriera ha colto ragguardevoli successi: prima in qualità di staffiere di Vera Zvonareva, accompagnata al massimo del proprio potenziale; poi nelle vesti di demiurgo di Victoria Azarenka, con la quale ha vinto due slam ascendendo alla vetta delle classifiche mondiali. L’ambizione è spesso nemica delle umane vicende, tuttavia, e la sete di successo indispettisce il destino; destino che ha prontamente deciso di far pagare il conto all’incauto Sam. Abbandonata l’inquieta Victoria nel mezzo della profonda crisi esistenziale che l’ha tormentata per due anni interi, Sumyk ha deciso di adottare Eugenie Bouchard. Bella, biondissima, già numero 5 del mondo e finalista a Church Road meno di un anno prima con un potenziale sconfinato da superstar planetaria, Genie sembrava fatta apposta per lanciare definitivamente la già augusta carriera del coach: il buon Sam avrebbe presto finito di sporcarsi le mani e, sigaro in bocca, avrebbe osservato la graziosa canadese fare incetta di trofei. Ma il cordone ombelicale che lo legava a Minsk non poteva essere reciso senza grave dolore e fiumi di lacrime. Cinque anni non si dimenticano; due slam e una manciata di medaglie olimpiche neppure. Sumyk provò a sdoganare la consensualità della decisione, venendo smentito dall’inconsolabile Victoria, ferita dallo scippo subìto. Fu la stessa Bouchard a spiegare l’evoluzione dell’intricatissimo affaire, accreditando al biondo e ambito preparatore atletico australiano Scott Byrnes, già collega di Sumyk qualche anno addietro, il merito dell’operazione.
Il fatto lasciò l’amaro in bocca a molti, e le decadenti prestazioni della sempre più spaurita e non meno dilavata Genie costrinsero l’improvvido Sumyk a reggere un pericoloso cerino acceso. I risultati furono disastrosi: all’inizio della collaborazione Bouchard era una ventenne in rampa di lancio al settimo posto delle classifiche mondiali, esattamente come Vika cinque anni prima. L’operazione, abortita appena sei mesi dopo, lasciò un cumulo di macerie. A settembre 2015 Eugenie si trovava al ventiseiesimo posto del ranking e in caduta libera, avendo raccolto nel periodo del rapporto con il tanto desiderato allenatore un tragico record fatto di 4 vittorie e 13 KO, con cinque sconfitte al primo turno cui vanno sommate le quattro patite al secondo round dopo aver superato il primo grazie a un bye. Un disastro.
Abbandonata la scialuppa, il naufrago Sam è attraccato al porto di Caracas, per raccogliere i dividendi promessi dalle sconfinato talento di Garbiñe Muguruza. E in effetti uno slam è arrivato quasi subito, al termine di un fulminante Open di Francia, ma il resto dell’annata ricorda in modo sinistro il raccolto da fame del periodo Bouchard. Non avesse compiuto l’exploit parigino, Garbiñe avrebbe acciuffato in tutto il 2016 la miseria di due semifinali, a Roma e Cincinnati, e non sarebbe inclusa tra le prime venti della Race. Il suo record annuale parla di 34 vittorie e 18 sconfitte, per un 65% di successi che dice molto circa la sua annata: evitando di prendere in considerazione il 2015 di Flavia Pennetta e il 2013 di Marion Bartoli, entrambe per diversi motivi sull’orlo del ritiro, bisogna tornare al 2010 di Francesca Schiavone per trovare una stagione così povera di affermazioni offerte da una campionessa slam in carica (per la cronaca, la Leonessa si attestò al 64%). Cosa si vuole dimostrare, in definitiva? Nulla, perché nulla è possibile dimostrare, e solo il tempo dirà se le decisioni di Sam, Genie e Garbiñe, i protagonisti di questo strano balletto, porteranno ai risultati che ognuno di loro ha desiderato. Quello che è certo, o almeno molto probabile, è che in un angolo remoto, impegnata a godersi le gioie della maternità, Vika Azarenka sta assaporando la bizzarra scena ridendo sardonica.
Si, perché l’intreccio di personali traversie e drammoni pubblici di cui abbiamo parlato ricorda in modo anche un po’ sinistro la vicenda di Babe Ruth, il lanciatore dei Boston Red Sox spedito a New York nel 1920 e artefice, secondo la leggenda popolare, della maledizione che costrinse la franchigia del New England a un digiuno dal titolo durato più di ottant’anni. “The Curse of Vika Azarenka”, verrebbe da dire. Dovesse collezionare altre delusioni tennistiche, il vecchio Sam potrebbe dedicarsi alla sceneggiatura: il titolo del suo primo film è già pronto.