L’abuso di “non ha la testa per essere tra i top player” nel tennis vive da sempre e in ogni strato e livello del gioco. Dal circolo sotto casa al circuito ATP, si incontrano quei giocatori che in vetrina hanno un talento lampante e chiaramente di altra categoria, ma che per motivi propri, utili o futili, non riescono poi ad emergere e sono costretti ad accontentarsi del racconto in birreria di quando “quello l’ho battuto eh”, mentre adesso “quello” sta girando il tennis che conta, magari. Se ne dicono di ogni e molto spesso con marchio banale, riutilizzato e scontato, su quanto l’aspetto psicologico del gioco sia ormai di gran lunga più importante di quello tecnico; di quanto un cervello granitico sia paradossalmente più necessario di un buon braccio o di gesti eleganti. Ai piani alti, c’è da essere concentrati non su ogni torneo, non su ogni partita, non su ogni game. Nemmeno su ogni punto. C’è da mordere, graffiare e stringere su ogni, singola palla, ogni rincorsa e ogni cambio di direzione. C’è da farlo per trentacinque settimane l’anno.
Per non parlare delle questioni non tennistiche in senso stretto. Uno stile di vita da professionista, senza eccessi di tipo alcuno: dall’alimentazione, al sonno, alla vita notturna. Prima della seconda doppia culla in casa Federer, a Miami lo svizzero venne intervistato in versione semiseria da quello che sarebbe poi diventato un suo collaboratore un paio di stagioni dopo, Ivan Ljubicic. In questa insolita versione da giornalista quasi scandalistico, il gigante croato chiese lumi sulla condotta di Federer nei giorni di gara. “Cerco di arrivare al complesso almeno tre ore prima dell’inizio della partita: faccio stretching, una doccia, mangio, ancora stretching e ancora doccia, poi magari mi rilasso un’ora e inizio il riscaldamento vero e proprio. In realtà la parte più dura da rispettare e quella tra i vari match: dormire bene è fondamentale, non devo soffrire di insonnia né rimanere a letto troppo a lungo”. E Federer fa questo da quindici anni sempre al vertice, 2016 escluso. Djokovic rivelò la sua paturnia del cioccolato e della dieta vegan, con “un solo cioccolatino che mi sono concesso dopo Melbourne 2011”: insomma nemmeno da numero uno, dopo un trionfo da dominatore, dopo l’ennesimo assegno milionario staccato con il sorrisone e la foto di rito con i ballboys. Neanche festeggiare è più una festa, quando c’è da stare attenti a non varcare determinate soglie. Scavalcare quei limiti, prima occasionalmente e poi con regolarità, è di fatto la strada verso la birreria di cui sopra.
C’è da essere dei superatleti, ma ancora di più dei superuomini. E l’ormai straetichettata Golden Age del tennis ci ha quasi fatto abituare a queste condizioni di estrema dedizione a cui si sottopongono, certo mai costretti se non dal loro talento e dai loro obiettivi, i sovrani del circuito. Federico Buffa, noto giornalista, scrittore e storyteller italiano, in uno splendido intervento alla Scuola Holden di Torino ha descritto benissimo cosa potrebbe essere quella sorta di ingrediente X che spinge i migliori a diventare, essere, rimanere e vivere, appunto, migliori. Una sorta di contratto con se stessi, per rispettare prima di tutto il dono che hanno avuto, poi il pubblico, le leghe in cui competono, i loro compagni, colleghi e avversari. La mentalità di sacrificio volto al risultato viene prima di tutto da dentro, dalla consapevolezza, che a volte è innata altre acquisita con gli schiaffi che una carriera o una esistenza intera possono vibrare sulle guance di ognuno, di essere effettivamente una spanna sopra al resto del mondo. E per onorare ciò c’è da impegnarsi e sudare una volta in più, rispetto al resto del mondo. Ma arriva un momento in cui a tenere sveglio Federer, Djokovic e Nadal non è più un crampo, un muscolo indurito, un’emicrania. Arriva un momento in cui l’ingranaggio non si arresta. Rallenta, il che è ancora più grave.
C’è un momento in cui forse il granello di sabbia finalmente si appoggia sul ferro e non cade, in cui l’olio nella macchina non basta più. C’è un istante in cui il tarlo riesce a fare breccia nell’unico spiraglio che la solidità di queste specie di robot aveva lasciato scoperto. Un attimo in cui l’unica cosa di cui si ha bisogno è il nulla. Il tasto standby, il segnalibro da porre tra le pagine prima di chiudere il libro, la coperta da tirare su prima della buonanotte. E quest’ultimo periodo nel circuito sembra quasi certificare una sorta di comune necessità dei più grandi, di allontanarsi da quell’aura di invincibilità di cui si sono fatti alfieri, oltre che straordinari interpreti. Non si tratta di un de profundis, di titoli di coda o riferimenti alla fine di carriere dorate. Si tratta di comprendere che anche chi sembra inarrivabile, alla fine è umano. Federer magari si può appoggiare al bastone della vecchiaia (agonistica), e su questo si è già prodotto qualsiasi fiume di parole. Ma Djokovic e Nadal hanno, semplicemente, deciso di ripiegare, l’uno per qualche settimana, l’altro addirittura fino al prossimo anno, il mantello e la tuta aderente. Hanno scelto di pensare per una volta, in maniera più concreta e spensierata, a chi li circonda e a loro stessi. Al compleanno del figlio Stefan e alla pesca a Manacor. Certo, se i supereroi si prendessero una pausa sarebbe un discreto caos per ogni città dei fumetti, perché il cattivo Andy potrebbe fare man bassa. Ma è il momento giusto per capire che anche se superatleti, anche se superuomini, supereroi non lo sono. Forse.