“Adesso è veramente finita, dopo più di dieci anni di carriera e ventiquattro di tennis, fatti di momenti duri ma anche piacevoli”. (Mathilde Johansson)
“Per me queste sono fra le parole più dure da scrivere. Dopo mesi e mesi di riflessioni e angosce, ho deciso di ritirarmi. Negli ultimi due anni ho lottato con gli infortuni, passando più tempo negli ospedali, dai fisioterapisti e negli studi medici, che in campo a giocare lo sport che amo. Non voglio che il mio corpo affronti ancora tutto questo”. (Nicole Vaidisova)
“Le corse ai check-in, la vita tra valigie e alberghi. Negli ultimi tempi quando percorrevo la strada verso l’aeroporto di Praga mi veniva da piangere. Ho viaggiato per vent’anni, ma ormai mi avvicino ai trentacinque e desideravo rimanere un po’ a casa. Mi sono resa conto che era il momento di iniziare una nuova vita”. (Klara Koukalova)
“Ho vissuto nella “bolla” del tennis per così tanto tempo che quasi non so quello che mi appassiona al di fuori. Non so cosa farò nel mio futuro: è allo stesso tempo eccitante e spaventoso”. (Sofia Arvidsson)
La stagione WTA 2016 si avvicina alla fine, ed è tempo di bilanci e consuntivi. Manca solo la finale di Fed Cup e poi non ci saranno più match sino all’anno prossimo. Sempre concentrati sulle imprese delle giocatrici di prima fascia, le stelle che vincono i tornei e monopolizzano i titoli dei media, di solito si trascurano le vicende e le avventure delle comprimarie. Uso questo termine apposta, consapevole che “comprimaria” ha in sé un’accezione anche sgradevole, sicuramente riduttiva rispetto all’impegno che ogni giocatrice mette nella propria professione. Ma questa è la realtà: se non si sta sistematicamente ai vertici, se non si lotta per i grandi traguardi, è molto difficile che nel tennis si ottengano spazi e attenzioni.
In parte questa situazione dipende dall’inevitabile logica dell’informazione, che privilegia gli avvenimenti dall’impatto più immediato; ma in parte, secondo me, dipende dalla poca attenzione per le storie minori, che non è detto non meritino di essere raccontate.
Di solito quando queste tenniste si ritirano vengono liquidate, se va bene, con una breve nota. Eppure tutte le giocatrici, anche le più forti, hanno affrontato la trafila che prevede un inizio dai tornei più piccoli, dalle qualificazioni, via via sino ai livelli massimi. E nelle posizioni di rincalzo si impegnano tenniste che mettono alla prova il valore delle nuove leve, incluse le future stelle, che così crescono progressivamente.
Dunque, anche se le comprimarie difficilmente fanno notizia (e guadagnano poco), hanno un ruolo indispensabile per sviluppare il tennis e le giocatrici di vertice. E qualche volta può anche capitare che maturino in età relativamente avanzata, salendo di livello in modo quasi inaspettato, come ad esempio è accaduto a Johanna Konta di recente, e qualche anno fa ad Angelique Kerber.
Nel corso di questa stagione alcune giocatrici hanno deciso di ritirarsi; tra le italiane lo ha fatto Gioia Barbieri, ad appena 24 anni. Più in generale, a sentire le dichiarazioni degli anni scorsi, sembrava che le Olimpiadi dovessero essere l’obiettivo conclusivo per la carriera di chi aveva ormai una certa età. Invece a quanto mi risulta solo Stephanie Vogt ha detto stop subito dopo aver preso parte a Rio 2016: dopo aver rappresentato il Liechtenstein (sconfitta da Johanna Konta) a 26 anni e con un serio problema al ginocchio ha chiuso con il tennis professionistico per iscriversi come studentessa all’ETH, il Politecnico di Zurigo.
Ma per le altre giocatrici che si sono ritirate definitivamente non è stata la scadenza quadriennale olimpica a risultare determinante, quanto piuttosto ragioni più profonde e personali. E alla fine credo sia giusto così: è difficile che il calendario agonistico possa coincidere con i tempi della vita.
Nel corso dell’anno sono arrivati gli annunci di fine carriera di molte giocatrici. Ho scelto di ricordare brevemente la storia di quattro di loro, senza fare differenze tra stelle di prima grandezza o tenniste di seconda fascia.
Sofia Arvidsson
La prima ad annunciare il ritiro dal circuito WTA nel 2016 è stata Sofia Arvidsson.
Lo ha fatto con un tweet del 4 gennaio, quindi in sostanza non ha giocato alcun match stagionale. Intervistata dalla WTA, ha raccontato che al momento di partire per l’Australia non sentiva più la spinta sufficiente per impegnarsi nel circuito, e dopo un breve periodo di riflessione ha preferito dire basta, anche se non aveva chiaro cosa fare dopo l’impegno agonistico. “Le motivazioni non si possono comprare, e mi sono resa conto che nell’ultimo anno e mezzo la mia fame di tennis non era più la stessa”.
Arvidsson, nata nel febbraio 1984, è stata la numero uno svedese per diverse stagioni, e dopo che Robin Soderling ha smesso di giocare lei e Johanna Larsson sono state le uniche rappresentanti ad un certo livello di una nazione come la Svezia, con un passato gloriosissimo nel tennis. Best ranking numero 29 a soli 21 anni (nel 2006), aveva poi trascorso quasi tutta la carriera tra le prime cento, prima che cominciasse una flessione nel 2013-14.
Non è mai riuscita a compiere exploit da prima pagina, ma ha comunque raggiunto risultati degni di nota: ha vinto due tornei WTA, sempre a Memphis, dove ha anche raggiunto una ulteriore finale (persa contro Sharapova). In sostanza sul cemento del Tennessee ha ottenuto il 100% delle sue vittorie nei tornei WTA e il 50% delle finali di tutta la carriera.
Apparteneva dunque al caso strano, ma non certo unico, di giocatrici che si trovano particolarmente bene in un torneo e su quei campi si esprimono al massimo. Penso ad esempio a Silvia Farina, vincitrice tre volte in carriera sempre a Strasburgo, o ad Anabel Medina Garrigues, vincitrice anche lei a Strasburgo tre volte e a Palermo addirittura cinque volte (su 11 tornei WTA complessivi).
Arvidsson era una giocatrice piuttosto potente (1,76 di altezza), ma con una mobilità non straordinaria. Il suo problema, a mio avviso, era che faceva parte di una categoria di tenniste nelle quali altre esprimevano un gioco simile al suo, ma di livello superiore.
Però non si può dire che non avesse doti interessanti, soprattutto sul piano caratteriale: dava l’idea di essere combattiva ma anche lucida e distesa in campo. E forse non è un caso che fosse diventata quasi una bestia nera per la sua coetanea Marion Bartoli (5-2 il testa a testa a fine carriera, malgrado fosse sempre stata dietro nel ranking). Marion infatti era una tennista che quando le cose si mettevano male poteva ricorrere ad atteggiamenti che miravano ad innervosire le avversarie. Atteggiamenti che evidentemente funzionavano molto poco contro la tranquillità caratteriale che Sofia sembrava possedere.
Ma, al di là di questo, per battere così tante volte una giocatrice come Bartoli si devono esprimere anche valori tecnici di un certo livello. E Arvidsson, soprattutto quando poteva colpire da ferma, era una giocatrice efficace e anche piuttosto elegante.
Nella pagina 2: Mathilde Johansson, la difficoltà di giocare dando il meglio di sè e le minacce di morte