Mercoledì da leoni: Nicolas Escudè e la Davis 2001
Non era la prima volta. Era già successo sette mesi prima nel Rhode Island, nell’appuntamento che di fatto chiude ogni anno la breve stagione sui prati. Là, nella cornice vittoriana dello storico Newport Casino, dove l’erba dei campi viene concimata direttamente con la memoria degli immortali allineati, vivi e morti, nell’International Tennis Hall of Fame, ebbene là il ragazzo che prometteva davvero bene aveva vinto il suo primo titolo importante. Doppio figlio d’arte, Taylor. Suo padre era stato ad un solo incontro, certamente il più duro, dal conquistare gli Australian Open a Melbourne nel 1974 ma aveva dovuto piegarsi, sia pur in quattro set, al nuovo astro nascente del tennis mondiale, uno scorbutico mancino figlio di mammà proveniente dall’Illinois di nome James Scott Connors. La madre invece, Betty-Ann Grubb, si era guadagnata alcune decine di minuti di celebrità indossando a Wimbledon più di un completino sfizioso con tanto di sorpresa, come scoprirono i fotografi nell’edizione 1979 dei Championships che le immortalarono il lato B al termine di un servizio con gonnellino svolazzante e la scritta “Watch It” sulle mutande. Singolarista non straordinaria, colei che al tempo faceva Stuart di cognome (come il marito di allora) fu invece buona doppista e, tanto per non farsi mancare nulla, raggiunse la finale della specialità sulla terra verde di Forest Hills nel ’77 in coppia con Renee Richards, nato Richard Raskin e in campo grazie a una sentenza della Corte Suprema dopo che la USTA le/gli aveva negato l’opportunità di iscriversi in quanto transessuale.
Dato che, a quanto pare, nella vita alla fine tutto torna (ma forse non è sempre così vero…) e le coincidenze spesso non sono tali bensì intrecci del destino, in un’altra Newport – Beach, località californiana dell’Orange County – Taylor Dent è nato il 24 aprile 1981. Con due genitori del genere, inevitabile che il ragazzo abbia fatto più viaggi dentro il carrello delle palline che in quello della spesa. Tuttavia, nello sport non esiste il concetto di equazione perfetta e quindi Taylor avrebbe anche potuto interessarsi ad altro che non fosse prendere in mano una racchetta. Invece a dieci anni Tails, così lo chiamano gli amici, cerca di onorare il padre e la madre e inizia a giocare nel club vicino casa. Siamo dunque nel 1991 e, mentre l’informatico britannico Tim Berners-Lee ha appena messo on-line il primo sito web della storia allargando di fatto il mondo della comunicazione, gli Stati Uniti sono all’inizio di una nuova era (l’ultima) di dominio tennistico. Il vuoto lasciato da Connors e McEnroe dalla metà degli Anni Ottanta in poi è divenuto terra fertile per le scorrerie dei popoli europei, soprattutto i vichinghi svedesi, qualche germanico e un cavaliere solitario moravo in attesa di cittadinanza americana. Ivan Lendl, Mats Wilander, Boris Becker, Stefan Edberg, Michael Stich e qualche altro; è di loro che stiamo parlando e sono loro che hanno rubato la scena (e buona parte dei major) agli atleti a stelle e strisce. Solo strisce, in realtà, finché una nuova congiunzione astrale mette insieme quattro stelle che più diverse non potrebbero essere: Agassi, Courier, Sampras e Chang. Saranno, questi ambasciatori di un altro decennio glorioso, fonte d’ispirazione per le nuove leve statunitensi ed è proprio con tali presupposti che Taylor Dent si incammina sulle orme del padre.
Se il buongiorno si vede dal mattino, saranno nubi e temporali per il ragazzo di buona famiglia. Il debutto nel circuito avviene ad Aptos, in un Challenger da 50.000$, e il sedicenne Taylor rimedia un doppio 1-6 con il belga Denis Van Uffelen, n°444 ATP ma assai più esperto di lui. È solo un primo assaggio che non deve intaccarne la fiducia e un anno più tardi, con qualche muscolo in più addosso, il giovane Dent torna sul luogo del misfatto e stavolta porta a casa la vittoria con il messicano Marco Osorio al primo turno per poi giocarsela fino al tie-break del terzo con l’italiano Caratti. La USTA lo tiene d’occhio e gli concede alcune wild-card per i tornei dell’estate americana, compresi gli US Open in cui, con i suoi 17 anni e 4 mesi, è il più giovane ammesso al main-draw. “Ho battuto tutti i migliori juniores, è ora che mi confronti con il tennis vero” afferma Taylor, esasperando forse il concetto. Proprio tutti, no. Tuttavia, è vero che sulla terra del Roland Garros si è imposto sull’argentino Guillermo Coria e sull’erba di Roehampton ha sconfitto in semifinale uno svizzero di nome Roger… Dent affronta e batte il qualificato tedesco Radulescu (costretto al ritiro all’inizio del terzo set sulla situazione di 1-1) ma, ancora più importante, non sfigura al secondo contro il russo Marat Safin. È nata una stella? Presto per dirlo ma, certo, il tennis tutto offensivo del figlio di Phil e quel servizio al fulmicotone ricorda in un certo modo Pete Sampras. In un certo modo, sia chiaro.
Dopo un 1999 di pura crescita tecnica e piuttosto avaro di risultati, alle soglie del nuovo millennio Taylor inizia a confrontarsi con i migliori. A Wimbledon, dopo aver passato le qualificazioni, trova al primo turno Andre Agassi e, per un set, la miglior risposta del mondo non può nulla contro il servizio del connazionale che poi cala alla distanza fino al ritiro nel quarto set. Sul cemento di Cincinnati e Indianapolis tiene il passo di Sampras e Kuerten e, pur collezionando diverse sconfitte, il padre Phil non ha dubbi: “Taylor ha una capacità di adattamento davvero notevole e conosce la sofferenza; sta lavorando duro e i risultati arriveranno”. Le sensazioni dell’australiano trovano assai presto conferma nella realtà. Peraltro, dall’età di 12 anni – da quando cioè Phil ha divorziato da Betty Ann – il figlio vive con lui e tra i due c’è grande feeling. Nel primo incontro ufficiale del 2001, a Chennai, Taylor batte lo scandinavo Magnus Norman, n°4 del mondo e testa di serie n°1 del torneo indiano, per 6-3 7-6. “Non avevo mai giocato con un pubblico simile; è meraviglioso!” afferma Dent al termine della sfida. Naturalmente, come lui stesso aveva preconizzato qualche mese prima (“posso battere chiunque e perdere da chiunque…”), Taylor non si ripete e al secondo turno si fa battere dal qualificato danese Kristian Pless. La discontinuità sarà la sua compagna fedele per il resto della stagione: vittorie eccellenti (Ferreira, Bruguera, Moya) mai confermate il turno seguente ma anche il primo Challenger in bacheca (sull’erba di Surbiton) e cinque set a Wimbledon contro Hewitt, costretto a vedere le streghe prima di mettere la museruola a quella battuta devastante che, ad un certo punto, fa registrare il record di velocità del torneo con 145 miglia orarie. Era accaduto anche a Edberg, undici anni prima, di uscire dal torneo al termine di un match in cui non aveva mai perso il servizio. Quella volta, Michael Stich perse il primo 6-4 e vinse gli altri tre al tie-break conquistando la finale che poi avrebbe vinto contro Becker. Taylor invece, al terzo turno dell’edizione 2002 dei Championships, concede tre palle break in quattro set, le annulla tutte ma perde tre dei quattro tie-break e il suo quasi connazionale (per la cronaca, Dent si è fatto tatuare sulla spalla sia la bandiera australiana che quella statunitense) Wayne Arthurs lo estromette dal torneo. Taylor rimedia quasi subito, vola a Newport e conquista il primo titolo ATP a spese di due rappresentanti della nouvelle vague americana: Robby Ginepri e James Blake.
Iniziato il 2002 al n°129 del mondo, Taylor Dent lo chiude ben 72 posizioni più in alto. E così arriviamo alla ricorrenza di questo mese. Nella settimana dal 17 al 23 febbraio 2003 il Racquet Club di Memphis ospita gli Us National Tennis Indoor’s e Dent ci arriva con il morale sotto i tacchi e tre sconfitte in stagione. Ha perso da Kendrick al Challenger di Waikoloa, da Ancic in quella che rimarrà la sua unica apparizione in Davis e da Lee a San Josè. Niente male. Il debutto con Mark Philippoussis rischia di allungare la striscia. “Scud” si procura ben sette set-points e potrebbe incamerare il primo set ma è Taylor a chiuderlo 17-15. “Uno di quei set che incidono sul resto del match” dirà Dent alla fine senza sapere che quello sarà il primo di dieci immacolati parziali verso il trionfo. Il secondo set è una formalità (6-1) ma il secondo turno gli propone un avversario atipico nel doppio bimane Jan-Michael Gambill: nessuno dei due cede la battuta ma il tredicesimo gioco in entrambi i parziali premia Dent che concede il tris nei quarti, al cospetto di Voltchkov. Vladimir ebbe i suoi dieci minuti di celebrità (anche qualcuno in più, per la verità…) a Wimbledon 2000, quando diventò il secondo qualificato nella storia del torneo in grado di raggiungere le semifinali. Dato che il primo era stato John McEnroe nel ’77 e dato, comunque, che il bielorusso era stato campione juniores sempre lì qualche anno prima, Voltchkov era ben più di una promessa. Invece le premesse erano rimaste tali anche se, nella singola partita, Vladimir era capace di tutto. Dent non si fida e fa bene, incamera il quarto tie-break su cinque set disputati e nel secondo strappa due volte la battuta al rivale e chiude 6-2.
“Nonostante tutto, penso che anche per il futuro il tennis americano non sia poi così messo male. Oltre ad Agassi, ci sono un gruppo di ragazzi che possono garantire continuità negli anni a venire”. Andy Roddick, unica testa di serie rimasta in gara, raggiunge i connazionali Vahaly, Spadea e Dent nelle prime semifinali tutte statunitensi in un evento ATP da otto anni a questa parte. L’uomo del Nebraska, destinato a diventare ben presto n°1 mondiale, è il grande favorito del torneo e soffre solo un set con Vahaly (7-5 6-1) mentre Dent ha vita più facile con Spadea (6-2 6-4). “Se gioca così, ce lo troviamo tra i primi dieci in breve tempo! Oggi proprio non c’era nulla da fare” aggiunge Roddick sconsolato a fine match. Un’ora di tennis asfissiante, quella interpretata da Tails: servizio e volée, risposta e ricerca della rete appena possibile ma anche buona solidità da fondo campo. Un primo set scioccante (6-1) e un secondo in cui Dent concede le uniche tre palle-break nell’ottavo gioco del secondo segmento, tutte fallite da Roddick. “Quando sono arrivato qui sentivo di star bene e di poter fare un buon torneo ma non immaginavo certo di vincerlo e di esprimermi a questi livelli” afferma Taylor, raggiante più che mai. Nella scala verso il Paradiso, il gradino di Memphis è piuttosto importante ma ce ne saranno altri non meno significativi. Tra settembre e ottobre infila dieci vittorie consecutive (tra cui quella con il n°1 del mondo, Ferrero) e mette in bacheca i titoli di Bangkok e Mosca chiudendo la stagione al n°33 del ranking. Taylor raggiunge la sua miglior posizione (21) l’8 agosto 2005 ma si accorgerà ben presto che l’Inferno non è poi così lontano. La schiena inizia a dargli sempre più fastidio e a Rotterdam, nel febbraio 2006, è costretto al ritiro dopo un set contro Christophe Rochus.
La sua schiena è malandata da tempo ma Taylor non crede alle sue orecchie quando gli specialisti lo informano che “sì, tornerà a camminare normalmente ma con il tennis ha chiuso”. Chiuso. La moglie Jennifer (Hopkins, tennista pure lei) lo sostiene nei momenti più difficili e lo aiuta a non perdere la speranza ma ci vuole una grande volontà a stendersi di nuovo sul lettino del chirurgo dopo che un paio di interventi precedenti hanno quasi peggiorato la situazione. Tuttavia, Dent non si arrende e tenta l’ultima carta, ovvero una delicatissima operazione in cui le vertebre interessate vengono unite tra loro. Stavolta ci siamo e i medici sono ottimisti: forse sarà costretto ancora per qualche tempo alla sedia a rotelle ma alla fine sì, ce la farà. Potrà svolgere una vita normale, o quasi. Come? Tornare a giocare? Non scherziamo, Taylor! E lui non scherza affatto. Oltre due anni dopo Rotterdam, Dent torna in campo nel Challenger di Carson. Perde in tre set con Mamiit ma questa volta non è il risultato ciò che conta, bensì esserci. Grazie ad alcune wild-card Taylor fa qualche saltuaria apparizione nel circuito ma l’appuntamento con il rientro vero e proprio è fissato per il 2009. Obiettivo: vincere di nuovo un incontro in uno Slam. Ci riesce quasi al primo tentativo, quando perde in cinque set a Melbourne contro Amer Delic, ma siamo sulla buona strada e già a Miami Taylor si qualifica per il main-draw e batte Mello, Almagro e Robredo prima di perdere con Federer nei quarti. Nelle sue condizioni e con il suo tipo di gioco, inutile sprecare risorse sulla terra; meglio concentrarsi sull’amata erba perché Wimbledon potrebbe dargli la soddisfazione che cerca. Invece, dopo aver superato le qualificazioni e recuperato due set a Gimeno-Traver, finisce sconfitto 6-4 al quinto. Ma l’appuntamento è solo rimandato e agli US Open finalmente la freccia si pianta nel centro del cerchio; Taylor batte Feliciano Lopez in quattro set e, tra il delirio della folla che non ha mai smesso di amarlo, si ripete con Ivan Navarro in cinque set.
Tutto il resto, da lì in poi, conta poco o nulla. Arriveranno altre vittorie negli Slam e un paio di titoli Challenger da aggiungere alla collezione fino all’ultima partita ufficiale in quel di Charlottesville, persa 6-4 7-6 con il sudafricano Rik De Voest. Siamo a novembre 2010 e l’appendice di una carriera che avrebbe potuto essere e non è stata vale forse più della carriera stessa. Adesso Taylor, insieme al padre e alla moglie, insegna tennis ai giovani nell’accademia di famiglia. E guai a chiedergli se ritenga che il serve and volley sia una pratica in via d’estinzione. Andatevi a vedere quei cinque set con Navarro e riuscirete a farvi un’idea della filosofia di Tails, l’uomo che visse due volte.