Autori Vari – SMASH (15 racconti di tennis) – La Nave di Teseo Editore, 2016, pagg. 234.
Ho sempre pensato che di sport, e di tennis in particolare, si potesse parlare seriamente al di là della cronaca giornalistica. “Smash” (raccolta di racconti sull’universo tennis edito da La Nave di Teseo) ne è un’ulteriore dimostrazione.
Il tennis ha mille sfaccettature, è sport difficile, crudele, stressante. Sotto la sua immagine di eleganza e raffinatezza (per decenni immortalata dai candidi vestiti bianchi e dalle racchette di legno, dall’alta società che assisteva a partite di tennisti che parevano abbigliati per presenziare a un cocktail, più che a una finale di Wimbledon) nasconde una ferocia che costituisce il suo nerbo nascosto, ma anche terribilmente affascinante, qualcosa da cui pare difficile, se non impossibile, distaccarsi. Perché?
Carlo Magnani nell’introduzione al suo “Filosofia del Tennis” scrive: “Il ciclismo è lo sport epico per eccellenza, infatti si trovano storie raccontate da giornalisti, scrittori, romanzieri, poeti, cantautori (…) Il tennis è un’altra cosa. Forse non è facile da raccontare, non è propriamente uno sport ardente, manca il momento topico; è piuttosto una costruzione incrementale e progressiva in cui tanti piccoli eventi formano alla fine un’epopea del tutto speciale. E non è all’epica che bisogna guardare, per comprenderlo culturalmente, quanto alla conoscenza”.
Ed è proprio vero. La differenza fra il tennis e gli altri sport è, forse, proprio questa necessità di comprenderlo razionalmente per poter entrare nelle sue stanze più segrete. Lasciate perdere le tifoserie da Coppa Davis, il tennis è sport per spettatori silenziosi. E riflessivi. Ed è uno degli sport che più prestano il fianco a essere interpretati come metafora della vita. Il tennis ci fa riflettere, come ci fanno riflettere le cose belle e meno belle, le gioie e i dolori della nostra esistenza. Con le sue geometrie, il suo ordine, ha la forza di illuderci che il mondo sia una costruzione perfetta in cui noi siamo protagonisti, padroni del nostro destino, ma quando la pallina colpisce il nastro e non sappiamo se andrà nel campo avversario o ricadrà nel nostro, l’imprevisto, la variabile non considerata, entra nella nostra vita e la stravolge. A questo punto, o sei preparato o non lo sei, e quello che sarà non è più in tuo esclusivo potere. Questo aspetto del gioco è stato messo in evidenza da Woody Allen nel suo film “Match Point” ed è la prospettiva in cui si incunea “Smash”, libro che parla di uomini, donne e tennis, di vita quotidiana e tennis, di amore e tennis, di rapporti familiari e tennis, di finanza e tennis, di adolescenza e tennis, di storia e tennis. E raramente sono racconti allegri. Non sono nemmeno tristi, a dire la verità. Cosa sono, allora? Sono semplicemente racconti che riflettono la medietà della nostra esistenza, giorno dopo giorno. Focalizzano l’attenzione sul rumore di sottofondo della vita, quel suono basso e regolare che non sentiamo mai ma che è sempre presente, come chi vive accanto alla ferrovia non si accorge del treno che passa, ci sei talmente abituato che fa parte di te. I racconti di “Smash” non strappano urla di gioia per imprese di supereroi, no. Sono racconti profondamente “umani”, riflettono quello che siamo veramente: uomini e donne che vivono ogni santo giorno e ogni santo giorno affrontano le incombenze della vita, si scontrano, là fuori, con l’imprevedibile umanità e con questo sconosciuto che siamo noi stessi. Vi pare poco?
Quindici scrittori (più un regista) per quindici racconti. Mi soffermerò su quattro di questi, non perché gli altri siano di qualità inferiore, ma perché in un modo o nell’altro hanno toccato corde vicine alla mia esperienza personale. Ciascun lettore troverà in questa raccolta quelli più vicini alla propria sensibilità. Ce n’è per tutti e vale la pena far parlare soprattutto gli autori.
Marco Missiroli: Mio Padre
Un racconto autobiografico, un padre ammalato di cuore, un figlio giornalista e scrittore alle prese con la fidanzata che lo ha lasciato, una vita da reimpostare e un romanzo importante da scrivere, un romanzo che mette a nudo il proprio io in un momento decisivo della vita. Sfondo a questo passaggio cruciale gli Internazionali di Roma e il desidero del figlio di fare un regalo al padre: incontrare Roger Federer, il tennista simbolo, per entrambi, del tennis.
“Mio padre disse che avrebbe donato gli organi una mattina di maggio del 2015 mentre attraversava il ponte Regina Margherita a Roma. Avevamo dormito nei dintorni e tornavamo dal bar che ci aveva preparato il pranzo al sacco. Lo guardavo camminare avanti, le spallone che non mi aveva trasmesso e il passo lieve che mi aveva trasmesso, aspettò che lo raggiungessi e mormorò che si vedeva smembrato e utile, alla fine di tutto. Poi disse: ‘E speriamo che Roger sia in forma oggi’. Rallentò e io pensai ai piedi di Federer e ai piedi del mio babbo, Roger e Sauro, ballerini senza peso. Al ventricolo possente del tennista e al ventricolo riparato del padre”. (Pag. 59)
Marco riuscirà a scrivere il suo romanzo, lo farà leggere al padre che vi vedrà molte cose del loro rapporto, cose che sono sempre state taciute, nascoste nella riservatezza di entrambi. Proprio quando tutto sembra andare per il verso sbagliato, il figlio troverà nel padre un saldo appoggio, una persona amica e sicura su cui fare affidamento. E questo incontro, silenzioso e denso di significati, avverrà proprio alla fine della finale dei campionati romani, dopo la vittoria di Djokovic su Federer nella finale del 2015.
“Ci appoggiammo alla balaustra con la schiena, ascoltavamo i clacson e il vociare del pubblico già lontano (…) Poi finimmo il pane, lui si accarezzò la bocca per liberarsi dalle briciole e ci incamminammo, io appena dietro, lo lasciai proseguire da solo. Si allontanava sul Lungotevere (…) Lo guardai, mio padre che se ne andava, finché si accorse che non c’ero e mi cercò. Mi chiamò e quasi sorrise, invaso da un nugolo di tifosi vestiti di rosso che lo superò a destra e a sinistra, lo guardai, mio padre”. (Pag. 76)
Edoardo Albinati in dialogo con Matteo Garrone
Garrone è, oggi, un affermato regista cinematografico. Pochi sanno, io lo ignoravo, che è stato in gioventù un valido tennista che ha tentato la carriera professionistica. Fino ai diciotto anni ci credette. Fra alti e bassi tentò di far breccia in quel mondo dorato che è il circuito dei grandi. Carattere incostante, obiettivi poco chiari, forse poca determinazione, consapevolezza che per essere un “vero” tennista non erano necessari solo i colpi e la tecnica ma anche una forma mentis particolare, determinata, focalizzata sull’obiettivo. Sempre, a tutti i costi. Bisogna iniziare a guardare al mondo e se stessi con occhi diversi, uscire dalla dimensione provinciale della propria città, del proprio circolo di tennis dove si può anche essere i migliori e coccolati da tutti, ma che non dà la vera dimensione di quello che c’è là, nel circuito del tennis che conta.
Così tenta l’ultima carta: l’accademia di Nick Bollettieri in Florida. “(…) Sono arrivato a giocare in serie B. Quando poi sono stato da Bollettieri avevo diciott’anni, ormai ero già “vecchio” come tennista. (…) Monica Seles aveva tredici anni; spesso la allenavo insieme a un altro ragazzo. Si vedeva che era un fenomeno, che sarebbe stata la numero uno del mondo, e già lei aveva quella mentalità: appena compiuti i quattordici anni ha iniziato a fare i tornei di classifica mondiale e prendere i punti WTA. Si tratta proprio di un approccio diverso”. (Pag. 85)
In Florida conosce un nuovo mondo, i grandi di domani, non solo la stupefacente Monica, ma anche Courier, Agassi, Jimmy Arias che, tutti, diventano suoi compagni di viaggio. Ed è proprio dal confronto con questi giovani campioni in erba che comprende che per lui il treno è già passato. Ma l’esperienza americana gli offre anche l’opportunità di capire chi è e dove può andare, cosa può fare. In America capisce come vanno le cose del mondo, scopre come sono fatti gli uomini. Significativo, a questo proposito, il ritratto del padre-padrone Nick. “Diciamo così: Bollettieri ha creato i presupposti affinché chi poteva esplodere trovasse terreno fertile. C’erano comunque giocatori con i quali allenarsi e anche dei tecnici di un certo livello, e la bravura di Bollettieri è stata di circondarsi di persone tennisticamente molto più competenti di lui, che era scarsissimo”. (Pag. 93)
Giorgio Falco: Grip
Vytautas Kevin Gerulaitis, classe 1954, figlio di immigrati lituani che, nel 1939, decisero di cercare fortuna in America, fu anche per me uno degli idoli dell’adolescenza. La sua capigliatura leonina, la rapidità nei movimenti, il carattere allegro, quel modo di muoversi e stare nel mondo che ispirava simpatia, hanno lasciato una traccia indelebile nel tennis degli anni Settanta. Il piccolo Giorgio che, a Milano, giocava a tennis su un campo rudimentale ricavato da uno spiazzo di cemento chiuso fra il condominio e una fabbrica dismessa, fu subito attirato dal modo non convenzionale di interpretare il tennis di questo strano campione che ebbe in sorte la maledizione di dover competere con delle vere e proprie leggende: Borg, Connors, McEnroe, eroi da cui lo differenziava, in primo luogo, il carattere, più mite e arrendevole, ma anche più consapevole delle cose del mondo.
“O forse il suo distacco dai primissimi era più mentale che tecnico, lui non era ossessionato come gli altri da una sconfitta o da una vittoria: paradossalmente, confidava nella vita per sistemare le cose, il tennis non era tutto, la vita lo avrebbe aiutato la prossima volta, in campo. Perdeva raramente partite contro giocatori più deboli, e ancora più raramente vinceva contro quelli migliori di lui, che spesso erano anche suoi amici, come Borg o Connors”. (Pag. 112)
E poi quella sua mania, ci racconta Giorgio Falco, di svolgere e riavvolgere il grip all’impugnatura della racchetta a ogni cambio campo, rito che si alterna, nella narrazione, all’ultimo giorno di vita di Gerulaitis, tragicamente morto a soli quarant’anni per un “banale” difetto di funzionamento dell’impianto di ventilazione della casa dove era andato a riposare prima di presenziare a un evento benefico a favore della American Cancer Society. Ma di lui, oltre al suo tocco leggero rimarrà per sempre quel rito catartico del grip, dentro cui Vitas sembrava cogliere tutte le asperità e imprevedibilità della vita in una visione unificatrice. Qualcosa che va oltre il tennis.
“Il tennista viveva nel gesto il tempo successivo, caratterizzato dal caos – rimbalzi irregolari, folate di vento, abbaglio del sole, improvvisa variazione di luce, bravura dell’avversario, propri limiti – che tentava di decifrare quando tutto pareva calmo, per essere più pronto non tanto negli scambi, ma dopo, nell’accettazione degli eventi, nella vita. (…) Forse Vitas Gerulaitis ci ha suggerito anche qualcosa di più … imprigionato dentro il cuore di una pallina da tennis è nascosto l’atomo, un volume grande e vuoto, distante e indifferente a noi e a se stesso, l’universo”. (Pag. 121)
Leonardo Colombati: Nord-Express
Con Colombati facciamo un tuffo indietro nel tempo, all’epoca dei romanzi russi dell’Ottocento. Protagonista il giovane diciottenne Vasilij Dmitrevic Kozlov, capitano della Guardia di Sua Maestà lo zar di Tutte le Russie Nicola II. Il giovane ufficiale è anche tennista e nel 1900 viene convocato per un torneo che vede affrontarsi a Parigi gli eserciti della racchetta di Russia, Francia, Inghilterra e Prussia. È la prima volta che esce dai confini patri e non vi farà ritorno.
“Avrei tanto voluto fremere di curiosità, assaporare l’eccitazione e la paura per l’avventura: ma non appena tirammo giù i letti, mi ritrovai a giocherellare con le corde della mia racchetta spiando, fuori, gli spazi tra i tronchi degli alberi pieni di nebbia, tutta impregnata dalla luce lunare; e già vinto da una strana nostalgia di casa, immaginavo di respirare l’odore di reseda e di tabacco che saliva dalle aiole del nostro giardino”. (Pag. 137)
Durante il viaggio in treno, a bordo del Nord-Express, il ragazzo si innamorerà, per prima volta, di una bella ragazza francese, promessa sposa al colonnello Germot, con cui dividerà la cuccetta fino a Parigi e che sarà suo rivale nello scontro decisivo sul campo da tennis in cui si deciderà il suo destino. Ancora una volta una vita plasmata su un campo da tennis e il finale è tutto da scoprire: amore, gioventù e l’imprevedibilità dell’esistenza, come quella pallina che tocca il nastro e non sai, per un attimo che sembra interminabile, se cadrà nel campo del tuo avversario o nel tuo…
Il libro offre molto altro: la scoperta dell’amore e del diventare donna a tredici anni su un campo da tennis (Elena Stancanelli), le tattiche del tennis specchio delle manovre nell’alta finanza (Guido Maria Brera), l’ironia graffiante e dissacratrice di chi il tennis lo detesta e, in fondo, forse, lo ama (Fulvio Abbate) ma, come ho detto, al lettore il piacere di avventurarsi in questo viaggio nel tennis visto da una dimensione umana, quotidiana, vera.
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Carlo Cocconi
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