Favola Ostapenko, a soli venti anni è la regina di Parigi (Ubaldo Scanagatta, Giorno-Carlino-Nazione Sport)
CHE STORIA ragazzi! Quasi incredibile, e vorremmo scrivere irripetibile, se non fosse invece assai simile a quella vissuta 20 anni fa, quando un ragazzo magrissimo di Florianapolis, Guga Kuerten, riccioli biondi e un sorriso che esprimeva gran gioia di vivere anche quando non volteggiava sull’amato surf, sorprese il mondo intero e il campione di due Roland Garros Sergi Bruguera, vincendo da n.66 Atp il suo primissimo torneo. Quattro anni dopo sulla terra rossa dello stesso “centrale” avrebbe lì disegnato un immenso cuore con la racchetta prima di sollevare per la terza volta (1997-2000-2001) la Coupe de Mousquetaires. Ieri una ragazzina, Jelena Ostapenko, n.47 del mondo d’un Paese con ancor meno tradizioni tennistiche del Brasile (la Lettonia) e nata per l’appunto proprio 20 anni fa nello stesso anno in cui Kuerten, trionfo al Roland Garros, ha vinto anche lei il suo primo torneo agli Internazionali di Francia, ovviamente senza essere testa di serie. Era dal 1933 che qui non vinceva una outsider (la mancina britannica Margaret Schriven). Ma allora le teste di serie erano 8, non 32. L’impresa è oggi più stupefacente. La Schriven battè la francese Simon Mathieu 6-2,4-6,6-4 e non stava certo perdendo, come Jelena Ostapenko ieri con la ben più esperta rumena Simona Halep, 6-4, 3-0 con 3 palle per il 4-0 per la rumena. La Halep ha perso così anche la chance di diventare n.1 del mondo, lasciandosi sfuggire, con mille rimpianti la sua seconda finale dopo quella del 2014 con Maria Sharapova (6-4,6-7,6-4) nella quale mancò 2 palle per il 3-1 nel terzo. La coach della Ostapenko, Annabel Medina Garrigues, tentava di suggerirle la tattica antiHalep ma lei la interrompeva: «Se io tiro forte e mi stanno dentro i colpi per lei sarà dura!» E infatti, 54 vincenti e 54 errori gratuiti, lei tira tutto sempre, senza troppo pensare. Esplosiva. Così alla fine il pubblico era quasi tutto per lei. Vincerà ancora tanto. Oggi finale maschile con Nadal favorito per la “Decima” su Wawrinka per la “Seconda”, ma non poi così nettamente (le quote dei bookies su Ubitennis.com).
Nadal e Wawrinka inseguono a Parigi la Decima e i miti (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)
C’è un prima e un dopo, come nella storia del mondo. La data fatidica è il 26 gennaio del 2014, una domenica. Estate australiana, Nadal e Wawrinka si sfidano per lo Slam degli antipodi e lo spagnolo, numero uno del mondo, ha un record di 12 vittorie a zero contro il rivale, il poco considerato svizzero di scorta. Soprattutto, ha già conquistato 13 Major, mentre l’altro è un novizio a questi livelli. Eppure, la sorte si divertirà a ribaltare un destino già scritto: vince Stan, scrollandosi finalmente di dosso l’ombra dell’eterno secondo sotto il sole del Divino Federer, mentre Nadal, sofferente alla schiena fin quasi all’abbandono, conoscerà una volta di più le pene del dolore fisico, solo un preavvertimento dei due anni d’inferno che seguiranno, malgrado il successo al Roland Garros di sei mesi dopo, il nono, non a caso l’ultimo Slam della casa. VITA CAMBIATA Passati tre anni e mezzo da allora, un’altra finale tra loro è un viaggio che si completa, un cerchio che si chiude: Rafa cementerebbe con un trionfo leggendario il definitivo affrancamento dal duro pegno pagato in due stagioni a un fisico ammaccato da mille battaglie, riportando indietro il tempo, Wawrinka invece scriverebbe un altro capitolo straordinario della seconda carriera. La prima, manco a dirlo, evaporò in quella sera di Melbourne: «Quel successo mi ha cambiato, non c’è dubbio. Mi fece capire che anch’io potevo vincere partite di quel livello, prima forse non me ne rendevo conto. Ma devo anche guardare in faccia la realtà, affronterò un giocatore fantastico che in questa stagione ha giocato benissimo su tutte le superfici, è qui per vincere potenzialmente il decimo Roland Garros, che è una cosa eccezionale. Ma in una finale tutto può accadere. La pressione è su di me, ma anche su di lui». SALUTE Le statistiche andrebbero pesate, più che lette, ma il libro dei confronti diretti dice che negli ultimi sei incroci, cioè da quella prima volta per lo svizzero, Stanimal e Rafa stanno tre a tre. Non a caso, Wawrinka può vincere il terzo Slam in carriera dopo i trent’anni e portarsi in scia a Laver e Rosewall (4 successi da over 30.). Però non è favorito, e lo sa: «Lui è semplicemente il più forte di sempre sulla terra». E non solo. Di Nadal, si tendono giustamente a magnificare le imprese sul rosso, dimenticando che la sua grandezza è stata scritta, per le sue caratteristiche, soprattutto altrove, sul cemento degli Us Open o sull’erba di Wimbledon. Dopo 24 mesi di tormenti, ha iniziato la stagione sul veloce con il fuoco sacro e soltanto la reincarnazione di Federer gli ha impedito l’apoteosi in Australia e poi nei Masters 1000 americani. Però ha già vinto 42 partite in stagione (23 sulla terra) ed è il più accreditato a chiudere l’anno al numero uno del mondo: sarebbe la quarta volta. Impressionante anche per un fenomeno come lui, perché nel 2015 davvero Rafa è stato vicino alla resa, roso dall’ansia per lo splendore smarrito: «La testa non rispondeva alle gambe, quando non hai la salute tutte le certezze crollano. Quando sono tornato sano, i risultati si sono visti. Mi ricordate tutte le volte dei 29 game concessi a Parigi fin qui, io mi concentro soltanto sul fatto che se sto bene, gioco bene. Per la prima volta in due anni, sono cinque settimane che non ho dolori da qualche parte, in campo si vede». E i numeri non contano: «Ho sempre avuto una passione per il nove, ma se dovessi vincere per la decima volta il torneo forse cambierò opinione. Ma non sarà facile, quando Stan tira forte diventa dura, devo impedirglielo giocando aggressivo, con ritmo alto. Certo, se dovessi rivincere sarebbe una cosa eccezionale, anche se io non mi considero affatto speciale». Il talento della normalità
Esagerata Ostapenko, la prima vittoria arriva in uno Slam (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)
Jelena può danzare sul mondo. La bambina che si divideva tra racchetta e scarpette da ballerina è la nuova regina del Roland Garros, sovvertendo pronostici e incendiando cuori. Ostapenko, un cognome per il futuro: solo il tempo ci dirà se la ventenne di Riga passerà veloce come una meteora o se invece segnerà a fuoco l’epoca del rinnovamento, quando Serena Williams farà solo la mamma e la Sharapova si occuperà solo dei suoi affari. La personalità della lettone, in ogni caso, non lascia indifferenti: a Parigi non era mai successo che vincesse una giocatrice non compresa fra le teste di serie (ha cominciato il torneo da 47 del mondo, domani sarà già 12) e lei, in sette partite, ha messo 299 vincenti, più di 40 a match. Con la velocità media del dritto misurata a 123 km/h, contro i 119 di Murray. AGGRESSIVA E’ il suo stile, del resto: o dentro, o fuori. Per un set e mezzo, la roulette infatti gira nel senso della Halep, cui basta difendersi senza cercare soluzioni affrettate, tanto i punti le arrivano dai gratuiti della ragazzina (23 solo nel primo set). Ma quando Simona, sopra 3-0 (e con tre palle per il 4-0) deve far valere le ragioni dell’esperienza e il peso della giocatrice più forte, si scioglie, denudando i limiti caratteriali che ne fanno una splendida perdente ai livelli più alti. Jelena comincia a picchiare ancora più forte, e la ribalta a suon di martellate e pugni al cielo: «A quel punto – confessa – mi sono detta che dovevo essere aggressiva più di quanto non fossi stata fin li, mi sono data due game per rimettermi in partita, per fortuna sono riuscita a cambiare l’inerzia». MAXISCHERMO L’8 giugno 1997, quando lei nasceva, Kuerten trionfava al Roland Garros senza aver mai vinto un torneo, come è successo a lei: »Mi piace, è un bell’incrocio del destino», sorride la nuova stella. Nel suo angolo, accanto a mamma Jelena, sua allenatrice da sempre, alla Medina Garrigues, che la segue da un mese, c’è anche un po’ di Italia con Ugo Colombini, l’agente che ha curato tra gli altri gli interessi di Murray e Del Potro: «Sorpreso? Secondo me poteva perfino esplodere prima». Intanto a Riga la partita è stata trasmessa sul maxischermo nella piazza principale e lei si attende un’accoglienza degna: «Credo mi riserveranno una parata per le strade. Ora cosa mi aspetto? Di vincere anche gli altri Slam». Sfacciata. E fortissima
Ostapenko. La baby dei record regina di Parigi (Valentina Clemente, Il Corriere dello Sport)
Non chiamatela semplice incoscienza quella sua foga in campo e non definitelo neanche un vezzo della sua età (20 anni e due giorni) quel suo modo di fregarsene del mondo perché, in realtà, Jelena Ostapenko ha la testa ben attaccata alle spalle e proprio credendo nel suo tennis esplosivo è riuscita ieri a salire sul gradino più alto del Roland Garros. Senza colpo ferire ha messo a tappeto la numero 4 del ranking Simona Halep, per il primo successo in carriera nel circuito maggiore. Prima vittoria e primo Slam in sole otto apparizioni negli appuntamenti più importanti del tennis mondiale (a Parigi nelle sue due apparizioni era uscita, una volta nelle qualificazioni, una al primo turno, senza mai vincere una partita), ma probabilmente il suo era un destino già scritto visto che è nata il giorno, l’8 giugno del 1997, in cui Guga Kuerten, trionfava sullo stesso campo che ieri ha visto trionfare Jelena. Che così nell’era Open diventa la prima giocatrice non testa di serie a conquistare Parigi, visto che in precedenza l’unica ad esserci riuscita era stata l’inglese Margaret Scriven nel 1933. In epoche più recenti l’ultima tennista a portare a casa il titolo nella sua prima finale Slam fu l’americana Barbara Jordan (per lei fu l’unico successo in carriera). La Ostapenko ha vinto il duello con Halep dopo essersi liberata delle ultime paure. «Sul 3-0 per Simona nel terzo set mi sono lasciata andare: ho pensato solo a divertirmi e ad essere aggressiva su ogni punto. Penso che lei abbia sentito la pressione del momento ed io ne ho potuto approfittare, anche se a livello personale credo d’aver gestito bene i momenti decisivi: grazie ad un paio di game a fondo la partita ha cambiato direzione». Amante della samba, e della danza in generale, la Ostapenko ha fatto ballare la Halep, facendola correre da una parte all’altra del campo, e tutti gli spettatori. «Ancora non ci credo alla vittoria, è un sogno diventato realtà, un sogno che ho costruito. Quando sono venuta qui in vacanza la prima volta a 12 anni tutto mi è sembrato perfetto: i campi, il museo, ma mai avrei pensato di vincere un giorno il titolo in questo stadio. A 15 anni ho scelto il tennis (rispetto alla danza, ndr) e penso di aver fatto la scelta giusta grazie anche a mia madre. Ora le cose stanno andando avanti, grazie anche l’apporto di Anabel Medina Garrigues, entrata a far parte della nostra squadra a Stoccarda il mese scorso». Con la vittoria di ieri, la Ostapenko ha portato a casa una somma pari al doppio del suo prize money vinto finora in carriera (2.100.000 contro 1.288.260 dollari), passando da n.47 a n.12 del mondo, mentre la Halep sale solo al n.2 e la Kerber resta n.1. Dopo le emozioni della finale femminile, spazio oggi al confronto tra Rafael Nadal e Stanislas Wawrinka: riuscirà lo svizzero a interporsi tra lo spagnolo e la sua decima al Roland Garros? Vedremo
Ostapenko senza paura, sfonda il muro Halep e conquista Parigi (Gaia Piccardi, Il Corriere della Sera)
La bambina produce tweet, non dritti e rovesci. Scambi sincopati di rapidità bruciante, caratteri al minimo sindacale, soçial tennis per adolescenti. «E il mio stile, io sono così: nessuno me l’ha insegnato». Viaggiando alla straordinaria velocità di vent’anni e due giorni, Jelena Ostapenko si prende il Roland Garros e il futuro: è la prima non testa di serie a vincere a Parigi dal 1933 (Margaret Scriven), l’unica lettone, la giocatrice di più bassa classifica (n.47), e come Kuerten sceglie la rive gauche per rompere il digiuno di titoli. Guga ci riusciva nel ’97, il giorno in cui Jelena nasceva. Troppo destino, troppe coincidenze, troppi colpi vincenti in finale (54 come gli errori gratuiti, 299 in tutto il torneo, più di qualsiasi altra donna o uomo, ed ha senso: molti punti a fronte di molti rischi) per non pensarla predestinata già dalla primavera in cui con mamma Jelena Jakovleva, maestra di tennis a Riga, volava qui a Parigi per visitare il museo dei Moschettieri: «Quella è stata la prima volta in cui l’ho sentita dire che avrebbe vinto il Roland Garros». La bambina che ha fretta aveva dieci anni. E stata una finale in apnea, breve e coincisa a dispetto della sua lunghezza, divertente e feroce nell’andamento. E stato un morso di avvenire che ha fatto apparire all’improvviso obsoleta la 25enne romena Simona Halep, alla seconda finale parigina della carriera, barricata a fondocampo nella difesa strenua di una strategia di contenimento in cui Jelena apriva i buchi senza riguardo né timore reverenziale, priva di paure, avanzando con lampi di energia vitale purissima. Una Seles versione 3.o: meno rumorosa, altrettanto cattiva. Ostapenko, sconosciuta fino a due settimane fa, si è presentata con quattro vincenti per il break. Un indizio da non sottovalutare. Non conosce colpi d’attesa né ragnatele tattiche: «Non vedo l’ora di colpire la palla, non sento la pressione, la notte dormo benissimo. Il mio idolo è Serena Williams, che gioca un po’ come me…». L’impunita azzarda rarissime volée bimani e sgrammaticate, ma la specialità della casa è da fondo. Nell’enclave di tifo romeno sul centrale, guidato dalla manager Virginia Ruzici (regina di Parigi ’78), Simona si è annessa 6-4 il primo set di mestiere, è volata 3-o nel secondo, ha avuto il match in pugno finché Jelena si è ricordata di non aver nulla da perdere, anzi solo da guadagnare: «Mi sono detta: okay, se non vinci almeno divertiti. E lì l’incontro è girato». A furia di violentissimi schiaffi di dritto (break del 4-3, chiuderà 6-4) e rovesci sulle righe, preparata all’impresa sul rosso dalla coach spagnola Anabel Medina, Ostapenko ha sfondato il muro Halep, impegnatissima a lavorare la palla per tenere indietro una nemica che non le dava mai tempo. «In certi momenti ho avuto la sensazione di essere una spettatrice non pagante» ammetterà, sull’orlo delle lacrime. Il terzo set è stato un’agonia simile: 3-1 Halep, con Ostapenko vicina al fuori giri. Treccia bionda, manine sui fianchi, soliloquio rovente. Invece di perdercisi, Jelena è riemersa dai fantasmi con un samba diverso da quello che balla in sala col maestro. Break del 2-3 con fendente sulla riga, break del 4-3 con un nastro fortunoso, match point del 6-3 con un rovescio lungolinea da campionessa, altro che ragazzina terribile. Temevamo fosse un derby interessante solo per l’Est europeo, invece è stato un Ostapenko show per tutti. «Devo lavorare ancora molto però mi piacerebbe vincere tutti gli Slam» dice la neo numero 12 del ranking sparando l’ultimo tweet della giornata. Un cinguettio mannaro, in linea coi tempi
Gli schiaffoni di Jelena e il tennis multietnico che verrà (Gianni Clerici, La Repubblica)
I soli biglietti che il mio amico scrittore aveva potuto offrirmi erano per oggi, finale femminile. Avevo chiesto ad Anita, la mia nipotina, se fosse contenta di vedere due ragazze grandi, e lei mi aveva risposto: «Contenta nonno». Anita, sette anni, ha deciso il Natale scorso che il suo sport è il tennis, sta prendendo lezioni presso il Tennis Como, il mio antico Club, ed ha affermato: «Voglio giocare a Parigi, dove abita mia cugina Lea». Cosi oggi, attraverso i supercontrolli antiIsis che l’hanno costretta a sottoporsi a un metal detector, Anita è arrivata al Roland Garros e ha commentato: «È addirittura più grande del Duomo di Milano». Prima della finale femminile, l’ho portata a vedere due tenniste più giovani delle finaliste, due americane chiamate Claire Liu e e Whitney Osuigwe. Anita ha ammirato le capacità atletica e la leggerezza della seconda e «Viene dall’Africa?» ha domandato. Non lo sapevo, e ho girato la domanda a un collega che mi sedeva vicino, Mark Winters, uno che ha giocato Wimbledon ai miei tempi. «Whitney ha il papà nigeriano che si occupa di cinema e la mamma, bianca, viene dalla Pennsylvania. La sua avversaria, Claire Liu ha invece tutti e due i genitori cinesi». Chissà cosa ne pensa Mister Trump, mi è scappato. E un altro vicino, Steve Flink, ha interloquito: «Ma tu lo chiami Mister? ». Terminata la partita siamo andati a mangiare un sandwich grazie alla Signora Dorothèe Leconte, la capa stampa, e abbiamo poi fatto il nostro ingresso sul Philippe Chatrier, il campo centrale. Anita è rimasta senza parole per un minuto, poi ha osservato: «E più grande che lo stadio di football, nonno. Ma cosa sono tutte quelle bandiere?». Le ho spiegato che le bandiere gialle blu e rosse erano pronte a sventolare per una delle due giocatrici, Simona Halep, e ho dovuto addentrarmi in una spiegazione per chiarire che rumena non vuol dire «di Roma», sebbene quegli spettatori non mi sembrassero meno agitati dei tifosi di Totti. «E l’altra, da dove viene nonno?». «L’altra viene da un paese con tanta neve, la Lettonia». «E non hanno la bandiera?». «Si vede che non ne avevano una pronta» ho risposto, vergognandomi per la mia impreparazione. Ho poi guardato, non posso dire ammirato, le due inattese finaliste del torneo, che aveva fatto esclamare a un commentatore televisivo: «Non si è vista una finale più scarsa dai tempi di un’altra rumena, Florenta Mihai contro Mima Jausovec, nel ’77». Mentre la vicenda di Jelena Ostapenko progrediva, e Anita batteva le manine, dimostrando maggiore ammirazione per la lettone, le ho chiesto: «Ti piace di più dell’altra, quella più giovane?». «Mi piace di più perché l’altra fa dei brutti rumori ogni volta che tira, nonno». La Halep infatti, emetteva ad ogni colpo suoni tra il rantolo e il gemito, suoni che datavano dai tempi della Seles e, purtroppo non erano stati proibiti in tempo. Ricordandomi che avrei dovuto, in qualche modo, approntare un francobollo ( detto altrimenti articolo ) percorrevo i risultati della ( fin qui ) sconosciuta. Aveva battuto la Chirico (n. 128) 4-6, 6-3, 6-2, la Puig (campionessa olimpica, n. 41) 6-3, 6-2, la Tsurenko, n. 42, 6-1,6-4, la Stosur (vincitrice di uno Slam Usa, n. 23 ) 2-6, 6-2, 6-4, la Wozniacki (ex n. 1, ora n. 12) 2-6, 6-2, 6-3, la Bacsinszky, n. 31, 7-6, 3-6, 6-3. Le aveva battute venendo non più di 20 volte a rete ( cito lo statistico Marianantoni) e senza mai giocare un drop, ma solo schiaffoni. Mi domandava infatti la nipotina «Ma nonno, non tira mai corto, quella li». «No» rispondevo, «si vede che il suo maestro non glielo aveva insegnato». Conclusa simile constatazione tecnica, l’ho accompagnata a casa della cuginetta.