Pazza idea Serena: “Torno in Australia” (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
Pazza idea. Di tornare a giocare laggiù. A fine agosto, quindi con le ore contate, nascerà il bebè di Serena Williams, ma la vincitrice di 23 Slam sta già guardando oltre, al rientro in campo da mamma e, possibilmente, da dominatrice come è stato nei vent’anni di una carriera inimitabile. E si fissa un obiettivo, all’apparenza un po’ folle, se non si trattasse di una giocatrice passata attraverso più e più infortuni e addirittura il rischio di morire per embolia polmonare nel 2011: «Voglio giocare gli Australian Open a gennaio».
Intenzioni svelate in una lunga intervista su Vogue America, in cui aggiunge ovviamente altri dettagli: «Lo so, può sembrare un progetto stravagante, magari esagerato, ma ci metterò tutta me stessa per riuscirci anche se saranno passati solo pochi mesi dalla maternità. Però se tutto funzionerà e avrò l’opportunità di eguagliare Margaret (l’australiana Court, primatista di Slam vinti in singolare con 24, cioè uno in più di Serena, ndr) già in quell’occasione, cercherò di cogliere il momento. Ma torno per vincere, non ho più vent’anni e non voglio vincere meno di prima, il nostro è uno sport dove puoi facilmente finire nell’oscurità. Perciò, o sarò competitiva o mi ritirerò». Parole chiare, confortate tuttavia da una certezza: «La gravidanza mi ha reso più forte, mi ha dato un potere fisico nuovo». E pensare che all’inizio la notizia la spaventò molto: «Era una cosa inattesa, non ci avevo mai pensato. E poi c’è il mio problema di salute, una gravidanza può procurare coaguli pericolosi legati appunto all’embolia (infatti si sottopone a un’iniezione tutti i giorni, ndr), ma quando sono rimasta incinta mi è successo qualcosa di incredibile: ho trovato una calma e una pace interiore che non avevo mai avuto».
Il sesso del bambino si conoscerà solo alla nascita, anche se un paio di mesi fa una mezza gaffe di zia Venus sui social, cioè l’uso del pronome «lei» a proposito del futuro nipote, sembrava aver svelato il segreto, malgrado l’immediata smentita di Serena. Scherzando, adesso è proprio la prossima mamma a ritenere possa arrivare una femmina: «Stavo giocando in Australia, ero già incinta e nonostante i mille gradi di temperatura e il gran caldo nella mia pancia non si è mosso nulla, nessun segno di fastidio. Quindi deve essere per forza una donna, noi siamo più forti di tutto anche prima di nascere». Nell’intervista, dove si scopre che la Williams sta cercando una baby sitter che parli francese per recitarle poesie in quella lingua (che lei ama), non manca ovviamente un riferimento a Maria Sharapova, l’arcirivale: «Credo che le mie colleghe mi considerino una ragazza piacevole, anche se da sempre la Sharapova viene considerata più carina dalla gente. La differenza è nel colore della pelle, del resto la società è fatta così: noi donne di colore dobbiamo essere due volte migliori e questa situazione comunque mi piace».
Una risposta neppur troppo indiretta al passaggio dell’autobiografia della Sharapova, in uscita a settembre, in cui la russa spiega perché Serena contro di lei cerchi sempre di andare oltre i limiti: «Non mi ha mai perdonato di averla vista piangere negli spogliatoi dopo la sconfitta di Wimbledon nel 2004: io ero una ragazzina, lei era già la Williams. Credo promise a se stessa che non avrebbe più perso contro di me». Gli Us Open hanno appena dato la wild card per il tabellone principale a Masha, garantendole la prima presenza in uno Slam dopo la squalifica. Perché le mode passano, ma i fenomeni restano (…)
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Ranking strano, ma Nadal merita il numero 1 (Gianni Clerici, La Repubblica)
Chissà cosa scriverebbe David Gray, di Nadal n.1. David fu l’ultimo giornalista britannico di livello internazionale, approfondi, per così dire, le sue conoscenze del gioco grazie all’intimità con Virginia Wade, allora n. 1 e, solo per migliorare lo stipendiuccio che gli passava il Guardian, divenne segretario della Federazione Internazionale, su richiesta del presidente e mio partner di doppio Philippe Chatrier. David non era amico del computer, riteneva le classifiche di Lance Tingay, altro scriba, più attendibili di quelle tracciate da un robot, e si deve ancora alla sua influenza che le teste di serie a Wimbledon siano diverse da quelle robottizzate.
Tutto ciò non deve apparire diminutivo per Rafa Nadal che, secondo il Robot, è tornato n. 1 del mondo. Rafa ha ora 31 anni, ed era stato Number One l’ultima volta nel 2013. Era seguita una sequela di incidenti muscolari, e ricordo ancora le foto del suo braccio sinistro, quello capace di produrre un colpo di sua invenzione, un colpo che, prima di lui, mai era esistito nella storia del tennis. Una rivista francese mise il braccio sinistro di Nadal prima dell’incidente, a confronto con il braccio dopo l’incidente. La muscolatura della prima foto occupava uno spazio doppio di quella della seconda, e la rivista insinuò che il segreto di quel braccio fosse offerto da una nutrizione chimica. Immediatamente Rafa querelò.
Simile versione non teneva conto del fatto che Rafa, con l’aiuto di suo zio Tony, avesse inventato qualcosa di nuovo, come l’australiano Mc Grath inventò, prima della guerra, il rovescio a due mani. Quel colpo nadaliano, tirato da destra o dal centro verso destra, fu la principale ragione di decine di vittorie del maiorchino, e lo è ritornato, grazie a un coraggio e a una volontà indomabili, che hanno permesso a Rafa di superare una serie di incidenti che avrebbero spinto 99 atleti su 100 al ritiro. Che cosa c’entra questa mia ammirazione per Nadal, con la prima parte del pezzetto? C’entra, per dire che, in una classifica non robotizzata, non esisterebbe oggi un numero 1. Djokovic è malato, Murray quasi, Federer anche, i giovani sono ondivaghi. Nadal è guarito, e non si può non congratularlo per il coraggio e la testardaggine (…)
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Quando lo sport cambia sesso: Renée, i 40 anni della rivoluzione (Stefano Semeraro, La Stampa)
Un anno prima, quando aveva tentato di scendere dalla Rolls Royce dell’organizzazione per entrare all’Orange Lawn Tennis Club, nel New Jersey, era stata aggredita dai fotografi. Per raggiungere i campi di allenamento Gene Scott, il direttore del torneo, aveva dovuto trascinarla di peso dentro la Club House e farla passare da una finestra sul retro. Era il 1976 e Renée Richards in quel momento si era chiesta per la prima volta se ne fosse davvero valsa la pena.
Renée era nata 43 anni prima a New York con un altro nome, Richard Raskind, e soprattutto con un altro sesso. Da uomo era stato un buon wide receiver nella squadra di football del liceo, e così bravo a baseball da meritarsi un provino con gli Yankees. A Yale, dove si sarebbe laureato in medicina, era invece diventato il capitano del team di tennis, entrando anche nel 1953 in tabellone ai Campionati degli Stati Uniti, gli attuali Us Open. Insomma: uno tagliato per lo sport. Il problema era che Richard si sentiva «una». E quando poteva si vestiva di conseguenza.
Così dopo il servizio militare in marina, la specializzazione in oftalmologia, un matrimonio naufragato, un figlio fatto e mille bugie, il dottor Raskind nel 1975 aveva deciso di cambiare sesso. Si era poi trasferita nella più liberale California, in cerca di anonimato, ma durante un torneo amatoriale over 35 a La Jolla era stata riconosciuta e smascherata. Gene Scott, ex tennista e vecchio amico di Renée in versione Richard, indignato per l’ondata di insulti piovuti sull’ex collega, decise subito di invitarla a South Orange, attirando l’attenzione del Paese ma provocando il forfait di 25 delle 32 iscritte. La neo-ragazza era mancina, alta (1,85), serviva, inevitabilmente, come un uomo, e altrettanto inevitabilmente divenne in un attimo l’eroina di tutte le minoranze. «Sembrava che tutto il mondo mi guardasse come una specie di Giovanna D’Arco», scrisse poi la Richards nella sua prima autobiografia («Secondo servizio»).
Lo scandalo era iniziato e divenne globale quando alla Richards, che si era rifiutata di sottoporsi ad un test ormonale, fu impedito di giocare agli Us Open. Renée però non si perse d’animo, portò in tribunale la federazione americana e il 16 agosto 1977 vinse in carrozza la causa per discriminazione. «In quel periodo folle», disse poi, «non credo che senza tennis sarei sopravvissuta». Cosi nell’anno dei Sex Pistols e di Star Wars e della vittoria di Virginia Wade a Wimbledon, alla fine di quella che per New York era stata the Summer of Sam, la lunga estate calda del serial killer che uccideva le coppiette, Miss Richards, la prima atleta transessuale dichiarata del tennis e dello sport mondiale, entrò trionfalmente al West Side Tennis Club di Forest Hills.
In singolare, divorata dal nervosismo, perse male al primo turno proprio dalla Wade (6-1 6-4), ma in doppio arrivò in finale con Betty Ann Suart, sconfitta solo da Martina Navratilova – di cui sarebbe poi diventata l’allenatrice per due anni – e Betty Stove. Due anni dopo agli Us Open arrivò fino al terzo turno e in semifinale in misto con (indovinate) Ilie Nastase. Si ritirò nel 1981, dopo essere stata anche n. 20 del mondo, da icona del movimento trasgender. Oggi ha 83 anni, è tornata a vivere a New York. Sostiene di non essersi mai pentita dell’operazione (…)