Fognini sparisce dai radar, il derby azzurro è di Travaglia (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)
Un italo-americano lo incita con fare paterno: «Non fare il mamalucco, Fabio». Lo farà. I gradoni assolati del campo 11 sono assiepati di folla. Tanta gente a cui diverte il modo di fare tennis di Fabio Fognini: le sue grandi giocate dentro e le sceneggiate fuori. Se ne vanno delusi, perché ieri il Fognini-Show non va proprio in scena. Insomma, qualcuno, lui, si dimentica di tirare su il sipario. Lo confermerà più tardi: «Per come ho giocato, è la più brutta sconfitta dell’anno: meglio voltar pagina». E così al secondo turno degli Us Open va l’italiano che non t’aspetti: Stefano Travaglia, 25 anni, da Ascoli Piceno, n 144 del mondo. Uno dei tanti ragazzi che calpesta e suda sui challenger per conquistare punti e un giorno poter frequentare con assiduità i palcoscenici prestigiosi come questo cemento.
Fognini timbra il cartellino, ma è assente. Dei suoi colpi, anche da fuoriclasse, con cui neppure un mese fa ha espugnato Gstaad (suo quinto trionfo), sono rimaste briciole. Fogna va sotto subito un set: 6-4 in 33′. Non spinge, serve male, risponde peggio. Si fa dominare da Travaglia, che in compenso gioca benissimo e spesso comanda il palleggio senza farsi intimidire dalla differenza di classifica: 118 posizioni. Nel secondo, Fognini si sforza e forza il tie-break: si costruisce pure tre set-point, che Travaglia annulla grazie anche a un paio di rovesci da paura e poi chiude 10-8. Sembra il classico dei copioni del nostro miglior giocatore: sprofondare per risorgere, andare con le spalle al muro per liberare il talento. Succede a tratti nella seconda partita e nel terzo che si prende per 6-3. «Ma ha fatto sempre tutto lui: io sono incappato in una giornataccia. Peccato perché ero in un periodo in cui giocavo bene». Butta la racchetta, addirittura la addenta e stacca a morsi un pezzetto di corda, sussurra le solite paroline (anche pesanti) a un giudice, forse la stessa donna a cui una volta la Pennetta aveva mostrato il dito medio. Poi nel quarto sparisce e molla l’ultima partita a zero.
Così di là dalla rete esulta Stefano, abituato a lottare per la sopravvivenza, smanioso di togliersi da una vita dura che raramente ricompensa dei tanti sacrifici. E lui ne fa da anni. Il suo debutto Slam è stato a Wimbledon a luglio (sconfitta in 5 set con Rublev), ieri ha bissato qui a Flushing, con successo: «Questa è la mia vittoria più importante della carriera, la prima nell’Atp. Ora voglio godermi questa giornata», dice. Ne ha diritto, perché per sua sfortuna il curriculum medico è più fitto di quello tennistico. Nel 2011 scivolò sulla scale sfondando con il braccio sinistro il vetro di una finestra: polso lacerato e taglio netto dei nervi. Tornò in campo dopo otto mesi a tempo di record, ma nel 2015 si fratturò lo scafoide della mano sinistra: altri due mesi di stop. Infine, nel 2016 si procurò una frattura da stress alla schiena: sette mesi fuori di cui tre immobile in un letto. Non si fa prendere dall’euforia, resta con i piedi per terra, forse perché crede alla grande occasione che si è fabbricato: «Ho sempre ritenuto che fosse meglio venire alle qualificazioni di uno slam che non giocare un challenger».
Questione di ambizioni e lui le ha. Spiega: «La partita di Wimbledon è stata un’esperienza fondamentale. Lì ero troppo preoccupato di chi avevo davanti. Ho capito che sbagliavo. Oggi ho pensato soltanto al mio tennis. No, con Fognini non ho rapporti di amicizia, perché non abbiamo mai giocato gli stessi tornei. Lo rispetto, ora dell’avversario mi interesso esclusivamente alla parte tecnica, altrimenti perdo il filo». E Stefano stavolta non l’ha perso. E’ un trionfo che vale un bel tuffo in avanti in classifica (intanto, 119). E non è mica finita qui: ora c’è il serbo Viktor Troicki, n 52: abbordabile. «Mi ha battuto al terzo turno quali di Sydney 2015, ma ho lottato», sorride. Fognini si consola: «Almeno andrò a casa subito da Flavia e Federico (…)
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Roger, Rafa e i rumori, la crociata del silenzio (Gianni Clerici, La Repubblica)
Nadal, facile vittoria su Lajovic, e Federer, si sono entrambi lagnati per il rumore. Due tubi dell’aria condizionata, senza la quale di yankees non riescono a vivere, sotto il nuovo tetto costato 150 milioni di dollari, e la maleducazione degli spettatori, li hanno disturbati nei loro match, un allenamento contro Lajovic, e uno inimmaginabile quinto set contro Tiafoe che qualcuno ha già soprannominato New Ashe, perché come il Grande Arthur è figlio di un guardiano di un parco, campetto di cemento incluso. Non vorrei fosse stata l’elezione a Presidente della Itf di Mister Haggerty al posto del nostro Ricci Bitti a provocare le decisioni contro le quali mi battevo invano l’altro ieri, il coach in campo e la libertà del pubblico di circolare durante il gioco. Haggerty è stato anche premiato con la recente elezione a undicesimo socio della Hall of Fame, nella poco frequentata categoria dei businessmen.
Qualcosa di simile era già accaduta nei miei anni d’oro, quando un intervento delle Brigate Rosse, mentre dalla redazione del Giorno accompagnavo a casa Giorgio Bocca, mi aveva convinto a emigrare negli Stati Uniti dove avevo acquistato una casetta a Lakeway World of Tennis, dove facevo il maestro insieme a Cliff Drysdale. Il padrone di casa e di un terzo della stagione tennistica era proprietario di metà dell’argento del mondo, e si chiamava Lamar Hunt. Mi comunicò la sua intenzione di rivestire i tennisti, sin li in bianco, con abitucci coloratissimi e di permettere agli spettatori di mostrare il loro entusiasmo, come nel football o nel basket. Risposi che il silenzio del tennis poteva rappresentare qualcosa di diverso, di unico, e insieme una sorta di copyright. Era un businessman, e decise di darmi ragione.
Siamo ora daccapo, come hanno fatto notare sia Federer che Nadal, nella speranza che solo gli avversari siano in grado di impedire il loro trentottesimo match, mai verificatosi negli US Open. A proposito di quella che l’attendibile New York Times ha definito “Cacofonia” Rafa ha dichiarato: «Non potevo sentire il suono delle corde del mio avversario, e quindi capire con che tipo di rotazione mi sarebbe arrivata la palla». Quanto a Federer, pur sollevato dal break finale a Tiafoe, ha detto: «Il suono ritorna in campo quando il punto non è finito. Causa il rumore arrivavo con ritardo, giudicavo male le distanze, e insomma mi trovavo in una situazione insolita (…)
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Little Italy non c’è più (Stefano Semeraro, La Stampa)
Bye bye, Little Italy, ovvero come è triste New York soltanto due anni dopo. Nel 2015 agli Us Open eravamo i padroni del torneo femminile – finale tutta azzurra fra Flavia Pennetta e Roberta Vinci – oggi non riusciamo a portare una giocatrice al 2 turno: non capitava dal 2001, ma allora in tabellone ne avevamo 7, non 3. Come sapevano benissimo gli antichi la gloria terrena, figuriamoci quella sportiva, fa in fretta a svanire. Il bilancio in rosa del nostro tennis agli Us Open è sprofondato definitivamente nel rosso con la sconfitta di Francesca Schiavone, l’ultima a scendere in campo, che ieri si è arresa in tre set (0-6 6-4 6-2) alla estone Kaia Kanepi, ex n. 15 Wta oggi 32enne e scivolata al n. 418, in un match interrotto dalla pioggia martedì con la Leonessa in vantaggio di un set (6-4 2-4).
Non se ne può fare certo colpa alla Schiavo, che a 37 anni, e al 68 Slam in carriera, resiste ancora nelle top 100 e ha già dato molto oro alla patria – ricevendone anche parecchio, una parte del quale, vedi il superpremio per la vittoria al Roland Garros, forse sarebbe stato meglio dedicare al sostegno del derelitto settore tecnico -, né alla 33enne Roberta Vinci, che per sua stessa ammissione è «ormai agli sgoccioli». Sconfitta anche Schiavone Qualche recriminazione in più merita forse il caso di Camila Giorgi, che di anni ne ha solo 25 ma pare destinata, anche per limiti suoi, al ruolo di eterna incompiuta.
A preoccupare di più però è il futuro, che con la Generazione d’oro ormai esodata o pensionata, fatica a trovarsi un posto al sole o possibilmente anche in penombra. Di quattro ragazze iscritte alle qualificazioni (Paolini, Rosatello, Trevisan, Brescia) nessuna ha passato il taglio e solo la Brescia è arrivata all’ultimo turno. Nel maschile, intanto, è finita anche precocemente l’avventura del nostro miglior giocatore, Fabio Fognini (…)
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Masha vince e piange: «Sotto gli Swarovski c’è tanta grinta» (Ubaldo Scanagatta, Nazione, Giorno e Resto del Carlino del 30-8-2017)
Maria Sharapova is back. Sì, 19 mesi dopo il suo ultimo Slam in Australia, dove risultò positiva al Meldonium, vestita di nero da capo ai piedi, con un abitino dello stilista italiano di Nike Riccardo Tisci ricoperto di Swarovski («Sotto quest’abito di cristalli c’è una ragazza piena di grinta che non sparirà»), Maria, la venere siberiana, è tornata alla grande, battendo davanti a una folla record — 23.771 spettatori sull’Arthur Ashe Stadium — la n.2 del mondo, Simona Halep: 6-4,4-6,6-3 (2 h e 43 m). Ha chiuso il match ed è finita in ginocchio, coprendosi il bellissimo volto irrorato di lacrime.
Lo avrebbe poi nascosto, dietro le mani, continuando a piangere in un misto di emozioni incontrollabili, sussultando fra pianto e riso. si due anni di sofferenze ripagate da una gioia indescrivibile. «Ora non è il momento di parlarne – replicava a chi le chiedeva quale fosse stato il momento più duro — ora sono felice e basta, guardo avanti, il passato è passato». Maria, 30 anni e oggi n.146, a seguito di una squalifica di 15 mesi, aveva già battuto 6 volte su 6 la rumena, 25 anni, che anni fa si era fatta ridurre il seno «perché pesava troppo e ostacolava la mia corsa e le mie volee».
Ma stavolta era decisamente più difficile, considerati i mediocri risultati dal suo ritorno a Stoccarda ad aprile, i ripetuti infortuni, da Roma in poi, i continui forfait. La notte, dopo la cerimonia d’apertura tipicamente americana con la pop-star Shania Twain, aveva nell’aria l’elettricità d’una finale, con Alec Baldwin, Pharrell Williams e un bel po’ di Hollywood in tribuna. C’era chi temeva i buuh di una folla ostile, dopo la fredda accoglienza che tante “colleghe” avevano riservato all’ “Imbrogliona” (“Cheater” per la canadese Eugenie Bouchard e altre; anche Andy Murray non era stato troppo tenero). Invece Maria è stata accolta come gli organizzatori speravano. Il match è finito con una standing ovation. Gli organizzatori che, al contrario di duelli del Roland Garros ( Non si devono premiare i cattivi esempi”), avevano optato per darle una wild card (“Ha già scontato la sua pena, può bastare”) erano soddisfatti del loro pragmatismo. I nuovayorkesi avevano dato loro ragione.