intervista di Yves Simon (Sudpresse) per TennisActu
testo e traduzione di Raoul Ruberti
“Peccato che non si vincano in anticipo, le partite, e che siamo obbligati a giocarle…” Non si è montato la testa Yannick Noah, ma ha sempre voglia di scherzare. Il capitano francese ha appena condotto un team d’eccellenza – Tsonga, Pouille e la coppia Mahut-più-Herbert – alla finale di Coppa Davis, superando anche una Serbia rimaneggiata nonostante la sconfitta nel primo singolare. “Evidentemente è il fascino di questa competizione, che riserva ogni volta qualche risvolto drammatico, in qualche momento. La storia della Davis si scrive sul campo, mai sulla carta. È per questo che è sempre uno spettacolo da vivere”. Prenderla con filosofia è più facile, dopo essere usciti vincitori.
Per Noah la Coppa Davis ha un fascino particolare, ancora in grado di emozionarlo nonostante l’abbia già sollevata due volte da capitano, nel 1991 e nel 1996. “È una competizione che ho davvero a cuore, quello che si vive è straordinario. Nulla di paragonabile agli altri tornei del circuito: in Davis giochi per i tuoi compagni, per il tuo paese, per il tuo pubblico. Il legame tra i giocatori e la gente è molto più forte. C’è una atmosfera più calcistica che tennistica, dove tutto è generalmente più ovattato. Mi piace tantissimo”. Non gli è sempre andata bene, però: l’unico campione Slam transalpino dell’era Open ha anche disputato una finale da giocatore, persa in casa 1-4 contro gli USA nel 1982. E se la ricorda bene. “Non mi sarei mai dovuto lasciar sfuggire l’incontro con McEnroe (perso in cinque set, ndr). Fu una esperienza dolorosa, ma quella sconfitta mi ha insegnato molte cose e ne ho conservato i lati positivi. Si impara continuamente in Coppa Davis, si può migliorare ogni volta. Se credi di sapere tutto, di non avere altro che certezze, è il momento di fermarti…”
Diviso nella sua doppia vita di cantante e capitano della Francia, Noah non ha dubbi: la fatica e la tensione sono incomparabili. Per questo a volte è necessario alzare la voce, o al contrario prendersi qualche critica senza rispondere. “Devo servire da schermo” dice, “sono i ferri del mestiere. Ho a cuore il compito di proteggere i miei giocatori al massimo”. Soprattutto perché, stando a quanto dice lui, le tensioni in seno alla squadra sono una invenzione della stampa nazionale. “È incredibile la distanza tra ciò che abbiamo vissuto insieme per dieci giorni, quasi come una famiglia all’interno del gruppo, e tutto il chiacchiericcio che c’è in giro. Lavoriamo bene, con qualche momento di sano divertimento, e quando usciamo dalla nostra bolla scopriamo tutte queste voci con un po’ di sbigottimento”. La sua serenità ha contagiato i giocatori – o è il contrario, o entrambe le cose? – tanto che il lavoro è stato piacevole “al punto che abbiamo quasi messo da parte il fatto di esserci qualificati per questa finale, come se ci andassimo in tutti gli anni!”
Considera i giocatori “come miei figli, anche perché hanno all’incirca l’età di mio figlio Joakim (il 32enne cestista dei New York Knicks, ndr)”. C’è in effetti una distanza siderale rispetto alla sua prima esperienza da capitano, quando si trovava a gestire colleghi che aveva da poco terminato di sfidare nel circuito. “È normale, c’è un divario generazionale con tutto quello che c’è oggi, gli smartphone, i social network… Ma bisogna vivere nel proprio tempo, e a me viene naturale. Vivo di altre cose, ma è altrettanto eccitante”. Giocatori iperconnessi, non è una novità del resto. Noah racconta addirittura un aneddoto a riguardo: i giocatori del Belgio, dopo il successo nell’altra semifinale contro la più quotata Australia, hanno inviato a uno dei singolaristi tricolore un video dei loro canti e cori di festeggiamento. Sarà anche questa amicizia tra i giocatori francesi e belgi a contribuire al clima di “derby amichevole” che si vivrà in finale, dal 24 al 26 novembre allo stadio Pierre Mauroy di Lilla (stesso impianto della semifinale, ma superficie differente).
Buoni rapporti che non significano però di certo che la Francia ci andrà piano. Agevolato dalla più rapida vittoria dei suoi, Noah ha già studiato il team avversario – “domenica ho guardato l’ultimo set giocato da Goffin e tutto l’incontro di Darcis. Giocano davvero bene, quei ragazzi!” e ha grande stima del numero uno vallone. “Goffin è quello che conosco meglio” confessa, “è molto apprezzato nel circuito. Si sta costruendo una bella carriera e ha ancora delle stagioni molto belle davanti”. Anche Noah è molto apprezzato in giro per il mondo, incluso il Belgio che è una tappa fissa dei suoi tour musicali. Ma non ha paura che questa finale gli possa far perdere un po’ di popolarità tra i vicini? “Soltanto per un fine settimana, giusto il tempo di vincere la Coppa Davis! In fondo sono belga, amo il mio paese!” Fermi un attimo, ci siamo persi qualcosa. Noah spiega tutto: “Una volta uno spettatore specializzato in genealogia mi disse che aveva fatto delle ricerche sulle mie origini, e aveva trovato mia nonna a Woluwe-Saint-Pierre. Non ho l’ho mai conosciuta perché fa parte delle vecchie storie misteriose della mia famiglia, ma se consideriamo che sono nato non lontano dal confine…”
Alla faccia del derby, quindi: nelle vene del capitano francese scorre sangue belga! Del resto, da una nazione all’altra il passo è breve. “Quando noi francesi andiamo in Belgio ci sentiamo vicini, sappiamo cosa ci aspetta dall’altro lato della frontiera. E penso che sia lo stesso per i belgi” spiega Noah. Saranno questi ultimi a dover viaggiare, tra un paio di mesi, ma i bleus si sono dimostrati ospitali, scegliendo una sede per l’evento addirittura più vicina a Bruxelles che a Parigi. Tutto esaurito assicurato, insomma, per quel clima Davis che al capitano piace tanto (ma occhio, perché piace anche a Steve Darcis). E allora, visto che la casa a cui tornerà per il meritaro riposo è un vero battello, è proprio il caso che Noah tenga saldo il timone. Soffia già il vento della grande coppa.