Fognini, mezza pena se sta calmo (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)
Condannato, ma con la condizionale. Fabio Fognini, che a settembre fu espulso dagli Us Open dopo l’episodio degli insulti alla giudice di sedia svedese Louise Engzell, dovrà pagare 96 mila dollari di multa, circa 81 mila euro, e sarà squalificato per due tornei dello Slam (Us Open più un altro non specificato): tutto questo però solo se fra oggi e la fine del 2019. Il n.1 d’Italia incapperà in una nuova sanzione in uno dei quattro ‘major’. In caso contrario, se cioè il dottor Fabio riuscirà a tenere a bada Mister Fogna, la pena pecuniaria sarà ridotta a 48 mila dollari, e la squalifica verrà cancellata.
Lo ha deciso ieri il Consiglio direttivo dei quattro tornei del Grande Slam, che ha anche specificato che «Mr Fognini ha accettato la decisione e non farà appello, esprimendo rimorso perla sua condotta che ha riconosciuto sbagliata». Insomma, è andata bene. Ma trattasi di un ultimo avvertimento: alla prossima, come direbbero Briatore e Trump, sei fuori. Attorno a Fabio a New York del resto non c’era una bella aria L’impressione è che anche alcuni dei suoi colleghi, fra i quali è stato e continua ad essere popolare e benvoluto, si siano stancati delle sue ripetute mattane («se lo fa lui, allora perché non posso farlo io?…).
La decisione arriva in contemporanea con la multa di 10.000 dollari che si è beccato l’altro bad boy del circuito, Nick Kyrgios, che a Shanghai ha abbandonato il campo dopo il primo set perso contro Steve Johnson al termine del solito litigio con il giudice di sedia, cercando poi inutilmente di scusarsi invocando un fantomatico infortunio. In Cina anche l’anno scorso l’australiano era riuscito a scontentare tutti: 16.500 dollari di multa dopo la prestazione da ombrellate contro Misha Zverev e il battibecco con uno spettatore. Anche lui deve fare attenzione a non tirare troppo una corda ormai molto tesa.
Fabio del canto suo, oltre all’obbligo certificato di mettere la testa a posto e tenere ferma la lingua – come per mesi prima degli Us Open gli era riuscito abbastanza bene – oggi ha da sbrigare un altro compito impegnativo, quasi impossibile. Negli ottavi del Masters 1000 di Shanghai a mezzogiorno (diretta tv su Sky Sport) si trova davanti infatti un Rafa Nadal da paura. I precedenti sono 9-3 per lo spagnolo, ma i due non si sono mai incontrati indoor; Fabio nel 2015 riuscì a spuntarla ben tre volte, il Rafa di oggi, lanciato verso la certezza aritmetica di finire l’anno da numero 1 – l’avrà già a Shanghai se vince il torneo e Federer non arriva in semifinale – è però un altro giocatore. Meglio: sembra (quasi) lo stesso di qualche anno fa.
Fra l’altro, tomando in cima al ranking a nove anni dalla sua prima volta, Nadal demolirebbe l’ennesima statistica visto che per ora il record, in condivisione fra Federer e Sampras, è di cinque anni. Federer, vincendo in riva allo Huang-Pu, raggiungerebbe invece Ivan Lendl a quota 94 tornei pro vinti in carriera. Davanti a loro c’è solo Jimmy Connors, con il suo primato, un po’ gonfiato, di 109 successi. Il duo Rafa e Roger del resto ci ha dimostrato ormai molte volte che non bisogna avere paura delle missioni impossibili (…)
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King contro Riggs, la battaglia dei sessi (Francesco Rizzo, Gazzetta dello Sport)
La vita è una partita a tennis contro l’immagine che gli altri hanno di noi. «Ho giocato centinaia di volte in singolare – spiega Billie Jean King, giacca rosa, grandi occhiali e risata contagiosa – eppure preferivo il doppio, fare parte di una squadra, avere una compagna al fianco. Da ragazza praticavo softball e staffetta e cosa ho imparato? Sei responsabile al 100% del risultato ma al tempo stesso, se perdi, non devi dare la colpa agli altri». Poi, però, ci sono momenti in cui o si è soli o non si è. Billie Jean, storica paladina dei diritti delle donne e della comunità Lgbt, per paradosso nota con il cognome dell’ex marito, nel 1973, a 29 anni, aveva già conquistato 10 dei suoi 12 titoli del Grande Slam in singolare (39 con doppi e misti) ma accettò e vinse la sfida lanciata da Bobby Riggs, 55enne ex campione a Wimbledon e Parigi, scommettitore indebitato e maschilista convinto. La chiamarono «La battaglia dei sessi», un match lui contro lei per vedere chi fosse più forte, 30 mila spettatori a Houston, 100 mila dollari sul piatto, audience tv stimata in 90 milioni. Quella notte è diventata un film, La battaglia dei sessi, nelle sale il 19 ottobre, con Emma Stone trasformata in Billie Jean dopo ore di studio per imitare la tattica di gioco da utilizzare nell’incontro, pensata per far stancare l’avversario e un diabolico Steve Carell che rende Riggs un clown pieno di ombre, capace di indurre a scommettere pure lo psicologo che lo curava dal vizio di scommettere.
«Mi allenai due settimane ma negli stessi giorni partecipavo a un torneo in città e non stavo bene – racconta la King – anche se molti erano convinti che fosse una scusa per evitare il match. Fu durissima. Piansi, alla fine. Il pregiudizio era il mio avversario, non Riggs: da sempre, dopo le partite, sentivo sulla pelle le occhiate sarcastiche dei giornalisti. Non ricordo donne che scrivessero di tennis. Ma tutt’oggi il 95% dell’informazione è in mano agli uomini». Il film gioca con ironia sui luoghi comuni – secondo molti maschi la donna o è corpo o è madre, in mezzo si fa la permanente – ma per la King il successo di Houston è ancora una rivendicazione. «Nel 1973 avevo contribuito a fondare la Women’s Tennis Association (Wta), per ottenere che ci fosse uniformità nei premi con gli uomini, all’epoca distanti: oggi le giocatrici hanno molto più prestigio, il tennis femminile è cresciuto in tutto, soldi, allenamenti, tecnica, alimentazione. Non ho mai detto che noi siamo più brave dei maschi: possiamo essere più divertenti. Ma il punto non erano e non sono il denaro o l’esposizione sui media, quanto l’uguaglianza di genere e la libertà. Le tenniste devono sfruttare la loro popolarità per migliorare la condizione femminile nei loro Paesi. Sfida mai vinta, perché spesso veniamo educate a inseguire una silenziosa perfezione, non alziamo la voce. L’ambizione, invece, è una bella parola: è un diritto».
Come 1a parità: per un paradosso fra nababbi, tra 2016 e 2017 l’attrice più pagata al mondo è stata proprio la Stone, 26 milioni di dollari secondo Forbes, 42 in meno del collega più ricco, Mark Wahlberg. Il nodo profondo è tuttavia l’identità: la medaglia d’oro della King è aver dichiarato, nel 1981, la propria omosessualità. Viene in mente Johanna Larsson (attualmente 89 al mondo in singolo e 26 in doppio), la svedese che ha appena raccontato di amare una donna e ha spiegato di aver avuto paura di perdere affetti famigliari e sponsor. «lo, gli sponsor, li persi. E leggo di giocatori o giocatrici che temono di ammettere di essere omosessuali. Quando feci coming out, impiegai anni a rialzarmi ma solo chi è se stesso respira. Conto sulla generazione dei Millennial, che non ha pregiudizi e rinforzerà i diritti civili (…)