Franco Arturi, Gazzetta dello Sport
Non è così frequente che un’eroina sia celebrata in vita. A Billie Jean King, 73 anni, mito del tennis, delle istanze delle donne e del mondo gay, sta accadendo con ogni merito. Il presidente Obama nel 2009 le ha conferito la «Medaglia della Libertà», la più alta onorificenza americana, come «agente di cambiamento della società». Oggi il mondo del cinema la onora con il film «La battaglia dei sessi», da pochi giorni in programmazione in Italia. Amo come nessun altro Billie Jean, nel combinato campionessa-femminista-donna di progresso. La pellicola dei registi Jonathan Dayton e Valerie Faris non passerà alla storia, ma è una buona operazione di spettacolo e cultura insieme.
Troppo manichea, difetto tipico del cinema hollywoodiano, per essere del tutto credibile, e con qualche imprecisione, ma comunque prodotta con stile e partecipazione emotiva. Alla fine fa passare buoni sentimenti e voglia di lottare contro sessismo e pregiudizi. Adorabile e magica la protagonista Emma Stone (Oscar per l’interpretazione in La La Land) nel restituirci soprattutto il sorriso di Billie Jean e addirittura il suo linguaggio del corpo. Il focus del film sta a mio avviso in uno scambio di battute fra un giornalista e le tenniste, fra cui l’animatrice Billie Jean, che stanno per dar vita alla Wta, per affermare i diritti delle donne ad avere gli stessi premi degli uomini. «Ma voi siete tutte femministe?», è la domanda. Risposta chiara: «Sì».
E pensare che oggi quasi ci si vergogna di questa parola magica, il femminismo, scambiato per la sua caricatura, nonostante si tratti del fenomeno socioculturale più importante, nella mia opinione, da un secolo a questa parte. L’unico che avrà davvero una chance di cambiare il mondo. Billie Jean l’ha fatto, prima vincendo la lotta per equiparare quei premi, poi battendosi contro le discriminazioni anti-gay, dopo il coming out del 1981. Con grandi sofferenze personali. Al centro della storia c’è la celebre partita del 1973 vinta in tre set da Billie Jean (12 titoli individuali dello Slam più una pletora in doppio e doppio misto) sull’ex numero uno del mondo Bobby Riggs, allora cinquantacinquenne, che aveva sfidato in precedenza l’immensa Margaret Court, battendola facilmente, e poi la King stessa, in nome di un maschilismo esibito a uso dello show, molto più che sentito. Qualcuno ha sostenuto in seguito che Riggs perse apposta per guadagnare sulle scommesse, ma la tesi complottistica ha avuto molte e autorevoli smentite: cambia poco nella mia visione.
L’evento ebbe un clamore mediatico immenso. È la parte che apprezzo meno della storia, anche se il tutto va riportato al contesto culturale dell’epoca: non sono «battaglie» come queste che danno senso alle rivendicazioni delle donne, sportive e non. Come non lo è la richiesta della grande sciatrice americana Lindsey Vonn di sfidare i maschi in discesa libera. Come non lo sono i piccati «distinguo» di Serena Williams per essere considerata non solo la più grande giocatrice di ogni tempo, ma la più grande uomini inclusi. La fisiologia separa i due sessi nel campo dello sport: è un’evidenza. Però serviranno sempre eroine come Billie Jean (…)