Borgatti R., Il Masters – Storia del più atipico torneo di tennis (prefazione di Stefano Semeraro) – Effepi Libri, 2017, pag. 351
“Il Masters” di Remo Borgatti è un libro atipico, come atipico è il torneo di cui parla. Eppure il “Masters” o le “Finals”, come vengono oggi definite, fanno parte integrante del mondo del tennis professionistico e da molti sono considerate, per importanza, seconde solo ai tornei del Grande Slam. Atipico il libro di Borgatti perché la suddivisione in capitoli corrisponde agli anni in cui il torneo si è disputato (e si disputa), ovvero dal 1970. Quarantasette capitoli di cronaca puntuale e accattivante, scritta con un ritmo incalzante che non lascia spazio a pause ma cattura l’attenzione e suscita entusiasmi per quel tennis che fu (le racchette di legno, il serve&volley) e per il tennis di oggi (potenza fisica, gioco da fondocampo, cambio dei materiali, tennisti che a trentasei primavere vincono due Slam in un anno, senza fare nomi …). Una cavalcata attraverso mezzo secolo di storia tennistica.
La prima edizione prende il via, dunque, nel 1970. Rod Laver, Arthur Ashe, Ken Rosewall, Stan Smith, Zeljko Franulovic e Cliff Richey sono i primi sei campioni che si giocano il titolo di Maestro. Già, all’inizio erano in sei e fu un “tutti contro tutti”. Ma su questo ritorneremo più avanti. Ora vorrei sottolineare l’andamento implacabile del libro, che capitolo dopo capitolo, anno dopo anno, fa sfilare davanti ai nostri occhi nomi noti e meno noti che si sono avvicendati nell’Olimpo tennistico, mettendo in evidenza come sono stati tanti i tennisti oggi dimenticati ma che, ai loro tempi, furono parecchio famosi. Chi si ricorda, oggi, dite la verità, di Franulovic o di Richey? Forse del primo qualcuno avrà sentito parlare, ma più per essere il direttore del torneo di Montecarlo che per il suo passato nel mondo della racchetta. Fra le tante cose interessanti che si possono scoprire durante la lettura, o ricordare se dimenticate, ci sono gli exploit di giocatori che parevano dei predestinati al top ma che, in carriera, hanno racimolato ben poco rispetto al proprio potenziale. Chi si ricorda, infatti, che James Blake, promessa del tennis a stelle e strisce ha disputato addirittura la finale, poi persa contro Federer, nel 2006?
Atipico, come ribadisce il sottotitolo del libro, è anche e soprattutto il torneo. Caso unico nel circuito, la competizione non prevede (con poche eccezioni in passato) l’eliminazione diretta. Ecco, proprio in apertura, Borgatti racconta (prima edizione, anno 1970): “Trattandosi, nell’intenzione degli organizzatori, di un evento particolare, anche la modalità di svolgimento si differenzia da quella classica a eliminazione diretta. Viene così introdotta la formula del round-robin, in base alla quale ogni partecipante affronterà tutti gli altri con match al limite dei tre set ed eventuale tie-break nell’undicesimo gioco con il punto decisivo sul 4-4. Tutti contro tutti, dunque, e il trofeo finirà nelle mani di colui che avrà vinto più incontri. In caso di arrivo alla pari tra due partecipanti, prevarrà quello che si è aggiudicato lo scontro diretto mentre se saranno tre o più si guarderanno i set e, in ultima analisi, i punti” (pag. 17).
A ben vedere, la prima edizione aveva la formula, forse, più giusta. Sei partecipanti, tutti contro tutti, conquista il titolo chi vince più partite. Semplice, equo. Nel corso del tempo, causa sponsor, concessioni allo “spettacolo”, ripensamenti vari, la formula è cambiata più volte. Già nel 1972 i partecipanti furono portati a otto, come oggi, e come oggi divisi in due gruppi. Tipo mondiali di calcio. Questa formula, tuttavia, ha subito molte critiche, se non altro per il fatto che due tennisti dello stesso gruppo si possono rincontrare in finale, vedi Orantes e Fibak nell’edizione 1976, con lo spagnolo vittorioso e nuovo Maestro dopo che aveva perso, nel girone di qualificazione, contro il polacco. E non fu l’unico caso (tutti ricorderanno che lo stesso accadde nel 2015 con il Maestro Djokovic e Federer). Giusto? Sbagliato? Chissà, fatto sta che questa formula è quella attuale.
E non è finita qui, perché nel 1982 le regole cambiano ancora: dodici partecipanti ed eliminazione diretta partendo dai sedicesimi di finale, con i primi quattro che saltano il turno d’esordio, le teste di serie. Questo fino al 1984. Nel 1985 i tennisti ai nastri di partenza sono sempre sedici ma tutti devono conquistarsi l’accesso al turno successivo, niente regali ai quattro migliori della classifica. Nel 1986 si torna a otto aspiranti Maestri divisi in due gironi. Una continua ricerca della formula ideale, dunque, che alla fine, nel bene e nel male, si stabilizzerà in quella che conosciamo oggi. Tutto ciò senza contare i cambi di sede: si parte da Tokyo (1970) per andare a Parigi (1971), poi a Barcellona (1972), a Boston (1973), a Melbourne (1974), si toccano tutti i continenti. Le sedi si avvicenderanno nel tempo, alcune più stabili di altre, fino alla O2 Arena di Londra, quella attuale dal 2009.
Un torneo atipico in tutti i sensi e Borgatti, con certosina precisione e competenza, mette il lettore al corrente di ogni cambiamento, facendogli fare un giro del mondo virtuale che porta alla luce, almeno per vecchi appassionati come me che seguono il tennis da quarant’anni, tanti ricordi, tante sfide, tanti volti che spesso si intrecciano a ricordi della propria vita personale. Per i giovani è un’opportunità unica per approcciare la ricchissima storia di questo meraviglioso sport. L’aspetto veramente succoso del libro, comunque, sono le cronache degli incontri più importanti. Anno dopo anno vediamo nuovi protagonisti. Alcuni, i grandi, troneggiano nel ranking per anni (Borg, Connors, Lendl, McEnroe, Sampras, Agassi, fino ai tre eccelsi Federer, Nadal, Djokovic), altri, tanti altri, sono comete che, comunque, riescono a mettere la propria firma tra i vincitori per poi sparire sullo sfondo (Corretja nel 1998, Nalbandian nel 2005, Davydenko nel 2009, per citarne alcuni).
Ci sono episodi che meritano di essere ricordati, come lo storico (per la mia generazione) episodio accaduto al Masters del 1980 che vide Borg (vincitore del suo quinto Wimbledon consecutivo) esibirsi in una delle rarissime “proteste” contro una decisione palesemente errata del giudice di sedia. Guarda caso, dall’altra parte della rete c’era McEnroe: “Si sta giocando il settimo punto nel tie-break del secondo set e Bjorn Borg, il campione con il ghiaccio nelle vene, infila John McEnroe con un passante di rovescio di millimetrica precisione. Il giudice di linea coinvolto nella decisione rivolge i palmi delle mani verso il Supreme Court del Madison Square Garden ma l’arbitro Mike Lugg, dall’alto del suo seggiolone, ha visto diversamente e cambia il giudizio assegnando il punto a McEnroe: 4-3. Borg resta impietrito per qualche istante, certo di aver capito male, ma quando Lugg ribadisce il punteggio lo svedese gli si avvicina e chiede spiegazioni. Non si era mai vista una tale reazione da parte del campione scandinavo e mai più si vedrà. Borg invita Lugg a interpellare il linesman e a nulla serve che l’arbitro gli ribadisca di aver visto la palla terminare out e di avere il potere di modificare la chiamata del suo collaboratore; Bjorn insiste e non si muove finché Lugg aziona il cronometro e, passati trenta secondi, lo penalizza di un punto. E, dopo altri trenta secondi, di un altro. McEnroe, incredulo, dal possibile 3-4 sotto si trova 6-3 sopra e quando Borg, visibilmente contrariato dall’episodio, torna a servire, lo aggredisce con la risposta e pareggia il conto dei set” (pag. 44).
E che dire della finale del 1988? Becker batte Lendl 5-7 7-6 3-6 6-2 7-6. Ecco la cronaca degli ultimi punti decisivi giocati al cardiopalma: “Disperato quanto determinato, il tedesco si butta all’attacco nel game in cui Lendl serve per il titolo, ma è un passante a garantirgli il rifugio nel tie-break. Qui il servizio ha un peso relativo nei primi otto punti e ancora nell’undicesimo, quando Lendl mette largo un passante in corsa. Stavolta è Becker a servire per mettersi in testa la corona di Maestro; mette la prima in rete mentre dalla seconda prende il via uno scambio tremendo in cui l’inerzia dello stesso pare volgere più volte a favore dell’uno o dell’altro. Il trentasettesimo colpo è un delizioso rovescio lungo linea di Becker che impatta nel nastro e cade mollemente cinque centimetri oltre la rete, sotto lo sguardo attonito di Lendl” (pag. 75). Un anno speciale per Becker che, dopo la vittoria al Masters, si aggiudica, assieme ai suoi compagni di squadra, la Coppa Davis contro la Svezia (che in quegli anni poteva contare su tennisti di valore assoluto). Per chi ha dieci minuti di tempo, può rivedere quel pazzesco tie-break, con quell’ultimo incredibile scambio di trentasette colpi, qui. La qualità del video non è eccelsa ma lo spettacolo che offrono i due è stupefacente, della serie: questo sì che è tennis.
Particolarmente appassionante è, anche, il racconto dell’autentica epopea del cecoslovacco di ghiaccio Ivan il Terribile che dal 1980 al 1988 infila nove finali consecutive vincendone cinque, nessuno così prima di lui. Capitolo dopo capitolo passiamo attraverso gli anni ’90 e i cinque titoli di Sampras, a conferma del dominio che l’americano ha dettato nel tennis di quegli anni, e approdiamo al nuovo millennio, dove, dal 2003 al 2016 è un soliloquio di Federer prima (6 titoli) e Djokovic poi (5 titoli) con poche eccezioni. Man mano che il racconto si dipana, la narrazione di Borgatti si fa più ampia, distesa e particolareggiata e il lettore può rivivere le edizioni più recenti come fosse davanti al televisore, rivedendo idealmente le magie di King Roger e i tentativi falliti di Rafa che Maestro, per ironia della sorte, non lo è mai diventato. Almeno finora.
“Il Masters”, dunque, libro atipico e appassionante di un torneo atipico e appassionante la cui definizione, data da Stefano Semeraro nell’introduzione, è, forse, quella che più si avvicina all’essenza di questa competizione: “Il tennis non ha mai avuto qualcosa di simile a un campionato del mondo: troppo diversi fra loro gli Slam, troppo lontani per prestigio gli altri tornei. Il Masters rappresenta la migliore approssimazione a un concetto sì poco tennistico, ma che alla fine della stagione, nel bene o nel male, nonostante l’eccentricità della formula – e a volte verrebbe da dire proprio grazie a essa – riesce a mettere d’accordo tutti” (pag. 10).
Per concludere, non si può non rilevare l’approfondito lavoro di ricerca svolto da Borgatti per la stesura di questo bellissimo libro. Ricerca delle fonti, delle cronache, delle dichiarazioni, tutto assemblato con la perizia e la competenza del cultore di quello che, come lo definisce sempre Stefano Semeraro nella prefazione, è “lo sport più bello del mondo”. Buona lettura.
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