Se 320 milioni di persone, abituate alle gesta di Sampras che fino a dieci anni prima dominava il mondo del tennis, si aspettano un exploit, ci sono buone probabilità che la pressione possa farsi sentire. Se si aggiunge il pesantissimo paragone con McEnroe perché aggressivo e mancino, insieme all’impatto mediatico-sociale del colore della pelle, la bomba comincia a ticchettare. Fino al dominio totale del mondo Juniores a metà anni duemila, che lo consacrava come stella in divenire nel modo della racchetta: lo stesso mondo che poi lo ha masticato, etichettato, maltrattato, quando a diciassette anni già lo definiva una promessa non mantenuta. “C’è stato un momento in cui ho effettivamente pensato di dire basta. Decisamente. Persi 6-0 6-0 contro Carlos Berlocq, a Miami, nel 2006″. Gli scappa una risata stridula, nervosa quasi. “Tornai a casa ed ero davanti alla TV con un amico: cercavamo qualcosa di divertente da guardare, e invece trovammo ESPN che mi distruggeva con decine di servizi. All’epoca avevo diciassette anni, e non avevo nessuno nel tour che potessi definire amico, quindi fu durissima. Adesso, dieci anni dopo, è più facile socializzare”.
Donald Young aveva tra le mani la ricetta assoluta per arrampicarsi sulla punta dello star system non solo del tennis, ma del panorama mediatico mondiale: nel 2005 apparve come unico atleta sulla copertina di NewsWeek nell’edizione di “Who’s Next“, dedicata ai protagonisti del futuro. Due foto più in là c’era Barack Obama. E invece si ritrova a fare i conti con una carriera tutt’altro che fulgida, di certo nemmeno sbiadito fac-simile di quanto le premesse potevano far sperare. Sono dieci anni che se lo sente domandare e ripetere: “È il mio passato, non lo rinnego mica. È qualcosa che mi appartiene, non posso farci nulla. Anzi, ne sono orgoglioso, all’epoca era primo in classifica, con ampio margine. Preferirei che tutti adesso si concentrassero sulla mia carriera da pro, certo, ma non mi disturba”. Si lascia andare sulla comoda poltrona di pelle della sala interviste del Roland Garros, dove ci raggiunge per un’esclusiva, a pomeriggio inoltrato. Sorridente, genuino, con un brillocco al lobo sinistro che si vede lontano metri. Privo invece del consueto berretto da baseball, indossato sempre un po’ di traverso durante i match.
A pochi metri di distanza siedono invece la sorella e la madre Illona, che insieme al padre Donald Sr lo seguono ovunque, da sempre: “Sono tutto per me. Senza di loro non sarei mai arrivato dove sono adesso: mi sono stati accanto all’inizio, durante i momenti più bui, quando volevo smettere. Sono ancora il mio staff, di fatto, quindi devo loro tutto, nel tennis come nella vita. La vita non dura per sempre, e poterla condividere con le persone che amo è fantastico”. Nativo di Chicago, si è poi trasferito nello stato della Georgia, dove i genitori sono proprietari e direttori del South Fulton Tennis Center, a College Park. Ventotto anni, venticinque dei quali trascorsi a inseguire palla gialla e sogni, con uno spirito che gli anni hanno temprato ma non scalfito, anzi sembrano quasi non aver intaccato il suo umore solare.
Durante l’intervista apre inaspettatamente un pacchetto di patatine da cui attinge con la mano destra, quella naturale nonostante il mancinismo in campo. Come se fosse la cosa più naturale, come un ragazzetto qualsiasi al bar: lui che di fatto è ancora relativamente giovane: “Penso di essere nella fase centrale della mia carriera, non credo di essere ancora nella terza età (ride). All’epoca del mio boom ero giovanissimo, 15 anni, è stato quasi prematuro. Sto migliorando con gli anni, mi sto conoscendo sempre meglio, sto maturando: e poi adesso si vedono giocatori al top anche a 30-35 anni, se dovesse essere così anche per me, ho ancora parecchio da dare”. Con il tempo, specialmente negli ultimi anni, la pressione è scemata: “Sì, assolutamente. Adesso ci sono altri a cui tocca reggere il peso delle aspettative. Quando mi affacciai sui grandi palcoscenici, di fatto ero l’unico statunitense all’orizzonte, ecco perché forse fu piuttosto difficile per me. Adesso c’è un gruppo di giovani che condividono la scena: questa nuova dimensione mi aiuta a concentrarmi di più su me stesso, e migliorare”. Via il pacchetto, mentre si accomoda l’accredito sulla zip della tuta scura.
Quest’anno il suo connazionale Ryan Harrison, altro bambino prodigio scottato dal mondo dei grandi, ha vinto il suo primo titolo in singolare a Memphis: “Lo conosco bene, abbiamo avuto una storia piuttosto simile. E mi ha anche battuto in semifinale, sulla strada per vincere quel primo trofeo. È bello vedere due statunitensi che lottano per una vittoria: certo sono deluso per non essere stato al suo posto, ma dentro me sono molto contento per lui. Arriverà il mio momento”, con un’alzata di spalle a metà tra la sicumera e la speranza. Due finali giocate in carriera, Bangkok 2015 e Delray Beach due anni fa. Lo stesso Harrison lo batterà in finale proprio a Parigi, al termina di un torneo giocato da esperto della disciplina: “Una vittoria è una vittoria, dà fiducia. Arrivare in fondo in doppio, in un torneo importante, su una superficie che non mi piace e con un partner nuovo può solo aiutarmi. E non credo di riciclarmi in questa specialità, penso solo possa essere una buona fonte per migliorare”. Non farà come Brian Baker, ulteriore ex fenomeno fermato però dai guai fisici.
Mentre il sole filtra dalle vetrate della enorme area interviste, Donald si stiracchia e prende tempo quando deve pensare al futuro e al passato: “Sono felice di come sto vivendo la mia carriera adesso, ma non vedo l’ora di affrontare i prossimi tre, cinque anni. Voglio migliorare, mi piacerebbe arrivare più di una volta in fondo ad uno Slam, vincere qualche torneo. Rimanere integro e continuare ad amare il tennis, questi sono i punti fondamentali. L’obiettivo primario è sicuramente vincere un torneo, poi magari passare da top 30 a top 20 e a salire (ora è al 61 ATP, ndr). Sono comunque gradini che vanno saliti uno alla volta, per adesso li visualizzo e poi li affronterò”. C’è spazio per i rimpianti, a ventotto anni come se ne avesse sessanta, per la quantità di emozioni, delusioni, e montagne russe che ha sperimentato: “Quando ero più giovane, ed ero effettivamente molto migliore degli altri, non mi sono impegnato come avrei dovuto. I miei avversari lavoravano duro per recuperare il dislivello con me, e io mi adagiavo. Avrei dovuto invece dare il massimo per allargare il divario, e diventare davvero il migliore di tutti, anche tra i pro“.
Verrà il suo momento. Fosse anche per il meno blasonato dei 250. Sarà forse l’unico a non pensare ai suoi esordi, alle copertine: gli basterà un titolo qualsiasi nel circuito maggiore per dimostrare di meritare il posto in cui siederà. E non gli interesserà di chi scriverà dell’etichetta di nuovo McEnroe, di prospettive non onorate. Avrà ancora gli abbracci di sua madre, che mentre si allontana sorride e gli dà una pacca sulla spalla, come se fosse appena tornato da scuola. Sarà il più forte del mondo davvero, per un momento. Fosse anche solo per se stesso.