Si è scritto e detto di tutto ormai. Quindi sarebbe il caso di non scrivere o dire nulla. Converrebbe non porre l’accento su alcun particolare, non evidenziare alcun dettaglio per non cadere nella tiritera di una celebrazione di Federer che sta paradossalmente diventando stucchevole, quanto più dovuta. Le cifre sono diventate come le tabelline a scuola, i record sono recitati a memoria, la biografia è un romanzo storico conosciuto da chiunque. Quindi basta.
C’è un posto che appartiene solo a lui, nella storia e nella realtà del tennis. Di cui si è appropriato con talento e cuore, dominando in modo imbarazzante, soffrendo, perdendo, tornando. Di cui si è impossessato grazie anche alle sue assenze, che hanno dato un sapore diverso ad ogni torneo importante che non lo vedesse tra i protagonisti. Un posto che ha il suo nome, più in alto di molti se non di tutti, non certo soltanto per i suoi venti Slam.
Forse l’unico vero modo per poter apprezzare Federer in maniera diversa, sarebbe non curarsene. Non accorgersi della straordinarietà dei suoi risultati e del suo stare in campo. Approcciarsi al suo tennis giocato, tutto, come se fosse la prima esperienza di tennis in assoluto, per poter godere di uno spettacolo sì bellissimo, ma senza metri di paragone, e di conseguenza meno prevenuto. Bisognerebbe forse dimenticare Federer.
È fisiologico, naturale comparare numeri e trofei con chi l’ha preceduto e chi gli è contemporaneo. E metteteci anche un po’ di sano tifo (sano davvero però, senza isterie ignoranti), che in fondo fa anche folklore. Lo farebbe di più se fosse spassionato e incondizionato per giocatori di seconda fascia, sebbene anche in quei casi si scadrebbe nella corsa a “io lo seguo da sempre”. Insomma si decanti la superiorità, ma non si trascuri il bello in senso stretto.
Sarebbe l’errore più grossolano e sciatto da compiere. Descrivere o immaginare Federer e il suo gioco, in funzione di quello che è pallettaro, di quell’altro che è noioso, di quell’altro ancora che è rotto. Ogni volta che si confrontano i suoi gesti con quelli altrui, si inquinano, semplicemente perché sono dimensioni, tipologie e perché no qualità diverse. Non può esistere un altro Federer, così come nessuno dei suoi contendenti più quotati troverà emuli, almeno a breve.
Al contrario, forse converrebbe fare tabula rasa. Accendere il televisore o sedersi sugli spalti con l’idea di guardare tennis per la prima volta in assoluto. Per assaporare in modo puro, quasi innocente, il suo tennis, e illudersi che sia quello l’unico possibile. È pacifico che sia uno dei migliori di sempre, a mani basse il migliore della sua epoca. Allora si provi a viverlo con la sensazione che non possa esistere altro.
Numero uno vuol dire anche, e per certi versi soprattutto, essere ambasciatore del tennis. Portare e promuovere lo sport sui suoi vari palcoscenici, elevandolo, difendendolo. Migliorandolo. E migliorarlo vuole dire anche aiutare ad alzare la qualità della percezione che ne ha il pubblico, che sia con atletismo, comunicazione, dedizione. Se anche il pubblico si prodiga per custodire e alimentare quella percezione, allora la missione dell’ambasciatore è compiuta.
Si provi a valutare Federer come esempio, prima ancora che come recordman e campione. Lo si ammiri come emblema, e il suo tennis come se fosse l’unico possibile. Non perché lo sia, ma perché sarebbe bello lo fosse, non alterato dalle interpretazioni che altri giocatori propongono, e che finirebbero per portare a una sterile sequela di “sì, però”. Federer non è il tennis: ma è il veicolo migliore per darci l’idea di come il tennis potrebbe essere al suo massimo splendore.
Vero che un modello è tale perché superiore o migliore ad altro. Ma allo stesso tempo, la presenza di altro vizia l’ideale stesso di modello, perché significa che esiste qualcosa di inferiore o peggiore. Per poter davvero dare un’accezione nuova a Federer, forse servirebbe dimenticare i suoi numeri e i suoi trionfi, come le sue sconfitte e i suoi avversari. Dimenticare che possa esistere altro, per elevare al massimo quello che è.
“La felicità, signorina, è fatta di attimi di dimenticanza” (cit.)