La finale femminile del Miami Open 2018 si disputerà tra Sloane Stephens e Jelena Ostapenko. Stiamo parlando di due delle ultime quattro vincitrici Slam, segno che se la WTA è priva di una vera dominatrice non è completamente in balia degli eventi come qualcuno potrebbe supporre. Entrambe hanno ritrovato in Florida lo smalto smarrito negli ultimi mesi, soprattutto dalla statunitense che dopo la sorprendente affermazione a Flushing Meadows aveva inanellato una serie di otto sconfitte consecutive. In conferenza stampa dopo la vittoria in rimonta contro Vika Azarenka, Sloane ha ammesso di aver vissuto con estrema tranquillità il periodo difficile, sicura che prima o poi sarebbe tornata a esprimersi su livelli a lei più consoni.
“Non è scattato alcun ‘clic’ particolare, avevo soltanto bisogno di tempo per rimettere insieme i pezzi. Come ho detto alla fine della scorsa stagione ho ‘dovuto’ giocare, ma se il mio cuore era in campo non posso dire lo stesso del mio corpo. Ho pensato che la cosa più importante fosse riacquistare la forma migliore, assicurarmi di non avere più dolore e prendermi cura di me stessa. Non ho affrontato alla grande l’off-season quindi le due partite perse in Australia a gennaio non sono state un grosso problema per me. Quando non sei al 100% non puoi aspettarti troppo. Ora che le cose sono tornate a posto stanno arrivando degli ottimi risultati. Ho ritrovato la mia routine: mi sveglio, faccio e colazione e leggo le notizie. Faccio una vita normale, invece quando ti succedono troppe cose (il riferimento al trionfo di New York è chiaro, ndr) capita di uscire un po’ dagli schemi e questo ti scombina un po’”.
Stupisce la rinnovata calma olimpica di Stephens, dote elettiva per resistere all’iniziale pressing di Azarenka, approfittare del suo calo atletico e conquistare una meritata finale: neanche il toilet break di Vika – ‘Mi interessa solo quello che avviene nella mia metà del campo‘ – ha avuto effetto nel distrarla. Tra il secondo e il terzo set le telecamere l’hanno sorpresa in un rituale di movimenti quasi ipnotici, che lei ha spiegato così: “Stavo semplicemente pensando a cosa fare nel terzo set: vincere, ovviamente, continuando a giocare come nel secondo parziale. Dovevo ricordare a me stessa le cose da fare“. Un po’ di farina appartiene anche al sacco del giovane coach 37enne Kamau Murray, che spesso la inonda di consigli tattici tra i quali si nasconde la chiave per rimettere in piedi le partite. Bisogna però saper attingere, poiché non c’è tempo e lucidità per eseguire ogni dettame. “Sì, è molto difficile quando ci sono così tante cose da ascoltare, ma penso che lui voglia semplicemente ricordarmi tutto quello che devo fare. La mia reazione è ‘okay, devo fare questo, devo fare quest’altro’. Dopo averlo ascoltato penso ‘okay, ha senso. Non sto giocando male’. In un certo senso mi rilassa, è… un promemoria amichevole“.
Per curiosa coincidenza, l’ultima conferenza di Jelena Ostapenko si è annodata sullo stesso argomento. Come riesce la 20enne lettone ad assorbire in appena due minuti il profluvio di segnalazioni proveniente dal suo allenatore Dave Taylor, spesso pesantemente focalizzate sugli aspetti tattici della partita? “Provo semplicemente ad ascoltarlo e riportare tutto sul campo. Per esempio, oggi (si parla della semifinale contro Collins, ndr) è stato molto positivo. Non mi ha detto nulla di negativo, era molto contento del mio gioco. A volte lo chiamo solo per vedere cos’ha da dirmi“. Per contestualizzare meglio quanto la risposta apparentemente simile di Jelena si discosti da quella di Sloane, basta riportare alla mente qualche episodio della sua pur giovane carriera. Più emblematico di tutti il burrascoso coaching del settembre 2017 a Wuhan, quando sulla panchina di Ostapenko sedeva ancora Anabel Medina Garrigues: venti secondi scarsi di monologo sono sufficienti a Jelena per rispedire la sua allenatrice sugli spalti. Domare le belvetta – a volte silente – che abita nel corpo di Ostapenko non deve essere facile, ma qui a Miami tutto sta funzionando alla perfezione e un set perso in finale sarebbe il primo dell’intero torneo.
Cos’altro hanno in comune Jelena e Sloane, oltre ai coach così meticolosi e al fatto di aver ricevuto una cura ‘rivitalizzante’ dall’aria di Miami? Hanno entrambe vinto il primo e unico Slam nel 2017, senza che fosse possibile prevederlo. Sloane aveva raccontato a Indian Wells cosa può comportare una vittoria così prestigiosa, con Jelena sono stati in molti a provarci in questi giorni ma tutto quello che sono riusciti a estorcerle è: “Nei grandi tornei sono tutti più carini con me e ho dei vantaggi, tipo… i bye“.
MA QUINDI, CHI VINCE?
L’incrocio tra le due è interessante, non solo perché si tratta di una sfida inedita. Pur con i quattro anni di differenza che non sono affatto pochi, è rintracciabile in entrambe una certa tendenza a imbroccare settimane grandiose e ammucchiarne altre piene di pasticci. Il fatto che qui a Miami entrambe sembrino tirate a lucido aumenta l’interesse.
Il bilancio delle finali disputate in carriera sorride nettamente alla statunitense. Ostapenko ha dovuto perdere le prime tre (Quebec City 2015, Doha 2016 e Charleston 2017) prima di imporsi al Roland Garros e a Seoul, dunque le sconfitte superano le vittorie (2-3); Stephens in finale invece è una macchina da guerra, ne ha giocate cinque e le ha vinte tutte fino all’apice di Flushing Meadows, e per di più ha perso un solo set (Acapulco 2016, contro Cibulkova). Scavando negli anfratti dei tornei di minor rilievo esiste però una delusione per Stephens e risale al 2010, nella finale di un torneo da 25000 dollari ospitato dai campi in terra rossa del Circolo Tennis Club Caserta. In quell’occasione si è dovuta arrendere a Romina Oprandi, all’epoca ancora italiana prima di scegliere la nazionalità (tennistica) svizzera. La kryptonite di Stephens è quindi l’Italia? Nemmeno, poiché nel 2011 ha portato a casa un 50K a Reggio Emilia. Così come Ostapenko ha vinto, quasi 17enne, tre ITF in fila nell’aprile 2014 a Santa Margherita di Pula.
Tutto questo pigro sgocciolare di numeri per aggirare l’ostacolo del pronostico, faccenda quantomai ingarbugliata. Una cosa si può azzardare: dipenderà più dal rendimento di Ostapenko. Non esiste reale contrapposizione a un suo ipotetico bombardamento in stile Roland Garros – non l’aviatore, che pure nella Grande Guerra fu foriero di sventure per certi aerei tedeschi – che dovesse durare due ore o più, sebbene la copertura del campo di Stephens sia mirabile. Le finali però sono i filtri di ogni scoria accumulata durante il torneo, e nell’ipotesi che Ostapenko dovesse andare fuori asse come a volte le capita appena imbraccia il cannone, ecco che la maggiore completezza di Stephens potrebbe venire fuori in modo decisivo. Con entrambe al 100% prendiamo Ostapenko, con entrambe un po’ al di sotto Stephens si lascia preferire. Sempre che non decidano di spostarla sul neutro di Caserta.