TENNIS AL FEMMINILE – Settimo titolo a Miami per Serena Williams, sempre più numero uno. Alcuni atteggiamenti del suo modo di stare in campo sottolineano il suo status di leader del circuito femminile. Un tentativo di individuarli affidandosi al punto di vista della prossemica.
Conosciamo Serena Williams da anni: su di lei è stato scritto moltissimo, tanto che si rischia di essere ripetitivi. Però la vittoria a Miami mi sembra una buona occasione per approfondire alcuni aspetti che da un po’ di tempo avevo in mente di affrontare; aspetti analizzati utilizzando strumenti non direttamente legati allo sport, quanto piuttosto ispirandosi al punto di vista suggerito dalla prossemica.
Se per caso qualcuno non la conoscesse, (in estrema sintesi) si può dire che la prossemica è una disciplina che si occupa dell’influenza dello spazio sui comportamenti umani. A proporre il termine prossemica è stato l’antropologo americano Edward T. Hall, che ha realizzato i primi studi e l’ha fatta conoscere anche al grande pubblico con un libro del 1966 dal titolo “La dimensione nascosta”.
Una parte degli studi di Hall si ispira ad alcuni concetti elaborati dagli etologi per descrivere i comportamenti animali. Concetti come quello di “territorialità”di alcune specie animali (quanto spazio ciascun individuo o gruppo di individui tende a difendere perché legato alla sua sopravvivenza alimentare e riproduttiva) o di “distanza di fuga” (sino a che distanza è avvicinabile un animale di una certa specie prima che fugga), sono stati ripresi e trasposti ai comportamenti e alle azioni dell’uomo; tenendo però presente che l’uomo agisce anche sulla base di motivazioni culturali e psicologiche.
Qui non pretendo certo di restituire il senso della prossemica, nemmeno per sommi capi; faccio solo un esempio per provare a spiegare di cosa parlo. Immaginiamo di trovarci in una sala d’aspetto, completamente soli. Ci siamo seduti in un posto qualsiasi, scegliendolo tra tutti i posti liberi.
Successivamente arriva un’altra persona e viene a sedersi proprio vicino a noi: nessuno spazio di separazione, nessun posto di distanza. A meno che questa persona non accompagni la sua scelta con un sorriso e una volontà di dialogo, interpreteremmo in modo negativo l’atto di sedersi così vicino pur avendo tutti gli altri posti vuoti.
Quanto sarebbe negativa la nostra percezione? Più posti a disposizione ci sono, più grande è lo spazio in cui ci troviamo, peggiore sarebbe la sensazione. E se invece la persona si fosse seduta lasciando vuoto un solo posto di distanza, il suo comportamento sarebbe stato accettabile o l’avremmo ancora percepito come improprio? E con due posti di separazione?
Non vado oltre con l’esempio, ma spero di avere almeno cominciato ad introdurre la logica dei ragionamenti della prossemica.
Individuo – contesto spaziale – altro individuo. Questi sono materiali di indagine della prossemica e credo si possa provare ad applicarli anche al tennis: giocatore – campo – altro giocatore.
Mi si obietterà che ci sono sport in cui l’interazione con gli altri è più stretta e diretta (discipline di squadra come il calcio o il rugby oppure individuali come la scherma o il pugilato); e poi nel tennis c’è la rete che tutto separa e delimita. Superficialmente potrebbe sembrare così, ma direi che in realtà è vero il contrario. Nei cosiddetti sport di contatto le regole di interazione con l’avversario (scontri, contrasti, posizioni) sono attentamente codificate e c’è un arbitro che è incaricato di sorvegliare, giudicare e intervenire.
Invece nel tennis, proprio perché la rete divide chiaramente gli ambiti spaziali (il mio campo, il tuo campo), le cose diventano più sfuggenti e complesse. Emergono situazioni non stabilite dal regolamento su cui i giocatori possono agire in modo più sottile, ma non per questo meno significativo.
Chi ha visto la partita Chang – Lendl al Roland Garros 1989, ad esempio, non credo possa dimenticare come Chang abbia messo in atto tutta una serie di comportamenti finalizzati a stravolgere le regole non scritte di una partita di tennis, sino a mandare in crisi l’allora numero 1 del mondo.
Il punto conclusivo rimane nella nostra memoria come un classico momento da interpretare con le logiche della prossemica: Chang (match point a suo favore) avanza con i piedi sino a ridosso della linea del servizio per rispondere alla battuta di Lendl. Non c’è nessuna norma che lo vieti, eppure Ivan è chiaramente infastidito dal comportamento sfrontato di quel ragazzino.
L’effetto di quella posizione disturbante e provocatoria è il doppio fallo di Lendl e la vittoria di Chang, sovvertitore di regole non scritte.
Indipendentemente dal proprio livello di gioco, chiunque abbia giocato a tennis sa che, quando si serve, la posizione di attesa dell’avversario in risposta incide sul nostro stato d’animo: e quando l’avversario avanza, percepiamo tutto il grado di aggressività che sottintende.
E se avanza oltre il normale, il disagio può diventare tangibile, come se chi ci fronteggia con quei passi avanti potesse spostare anche il volume d’aria che ci dovrebbe separare da lui, aumentando fisicamente la pressione.
Diventa una sfida che travalica la pura questione tecnica: basterebbe servire profondo, vicino ai piedi del nostro avversario, per farlo sbagliare e rimandarlo indietro (fisicamente ma anche moralmente), rimettendolo al “suo posto”. E però se si esagera e si serve fuori, o se si è troppo prudenti e gli si accomoda una palla tenera, saremo noi a soccombere (tecnicamente e psicologicamente).
Ogni giocatore sa queste cose, a maggior ragione i tennisti professionisti. Figuriamoci una campionessa esperta come Serena Williams. Su questi aspetti ha dimostrato di possedere qualità particolari (non saprei dire se elaborate per istinto o razionalmente) che valorizza in diverse situazioni.
Nella risposta alla battuta Serena ha un comportamento molto aggressivo, perché possiede i riflessi e la capacità per colpire con i piedi ben dentro al campo; di conseguenza in alcuni casi potrebbe anche permettersi di fare la mossa di Chang; però non ricordo di averla mai vista avanzare in modo così sfrenato. Semmai una cosa del genere la faceva, in alcune occasioni, Marion Bartoli.
Il modo di posizionarsi di Serena, ricorda invece quello che utilizzava Monica Seles: aggressività costante, e in qualche caso solo leggermente sopra le righe: qualche centimetro di troppo, però mai esageratamente.
Secondo me questa scelta deriva dal fatto che l’opzione Chang/Bartoli è un modo di cercare il confronto con l’avversario secondo la logica della rissa: una provocazione che simula, con gli strumenti a disposizione nel tennis, la disponibilità allo scontro fisico.
È il comportamento di chi cerca la lotta per definire nuove gerarchie e, mostrando di non avere timori, vuole salire di livello per diventare dominante.
Ma Serena non ha bisogno di salire di alcun livello: lei è già la numero uno. Non sta a lei cercare la rissa (virtuale); semmai ci provino le altre nei suoi confronti, se ne hanno il coraggio (e se qualcuno ha il fegato di andare a ridosso del servizio sulle sue battute…).
Considerato il suo status, per Serena è più coerente e funzionale il piccolo atto di sfrontatezza ogni tanto, il passo avanti di troppo che ha lo scopo di ricordare periodicamente all’avversaria chi comanda “la fuori”.
Un altro comportamento interessante, forse il più evidente per esplicitare sul piano della prossemica la propria leadership, Serena lo mostra nel modo di cambiare campo sull’1-0 di inizio set. Come sappiamo, al cambio dell’1-0 non è consentito sedersi, ma ugualmente i giocatori fanno una capatina al proprio posto per bere un sorso d’acqua, usare l’asciugamano, etc. Piccole cose di routine, che sono un modo per tenersi in contatto con l’unico luogo davvero stabile e personale dello spazio di gioco, visto che nel tennis si cambia campo continuamente.
Il posto dove il tennista lascia le proprie cose è il rifugio dove lo scontro si sospende e che per questo rigenera e infonde sicurezza; ci sono giocatori (come ad esempio Nadal con le sue bottigliette) che lo curano ossessivamente, ne marcano la proprietà e lo sentono come sacro.
Vale per tutti ma non per Serena, che è al di sopra di tutto ciò: per cambiare campo lei può permettersi di rinunciare a quella specie di porto protetto, di coperta di Linus. E così attraversa lontana dalla sedia incombente del giudice di sedia, percorrendo una parte di spazio più aperto che fa spiccare l’importanza della sua figura.
In questo modo è come se prendesse possesso di tutto il campo, compresa una zona nella quale le altre non si avventurano; e di cui lei invece si appropria, calpestandola fisicamente. Cammina, calma e sicura come una regina verso l’altra parte, ed è impossibile non notare la differenza con le altre, la sua unicità. E così mostra il segno della sua forza a tutto lo stadio, avversaria inclusa.
Se poi ci fossero ancora dei dubbi, ce li toglie comportandosi allo stesso modo anche in occasione del cambio campo dopo il sesto punto del tie-break, cioè in uno dei momenti topici delle partite.
Inizio set o fasi conclusive e determinanti, non fa differenza: siano le altre ad aver bisogno della sosta di conforto. Serena Williams no, perché è superiore.
Naturalmente nello sport uno status di questo genere è figlio innanzitutto dei risultati. Prima di tutto si deve vincere, e solo poi il resto potrà arrivare. Però una vera regina la sudditanza deve anche saperla coltivare, anche per farla diventare in qualche occasione un atteggiamento utile durante il tennis giocato vero e proprio.
A questo proposito vorrei tornare ad un momento particolare della carriera di Serena, agli Australian Open 2007, vinti malgrado una condizione fisica non proprio scintillante. Williams era reduce da una periodo pieno di infortuni, tanto da precipitare oltre l’80mo posto nel ranking (81ma prima del torneo, addirittura al posto 95 a fine 2006).
In sovrappeso e pesante negli spostamenti, quella Serena era molto limitata sul piano difensivo, ma poteva sempre contare su tre punti di forza: il suo talento naturale, la potenza e la forza mentale.
Se il fisico non consente di spostarsi al meglio, si deve giocare un tennis fatto di scambi brevi, cercando il punto prima possibile, anche a costo di prendere grandi rischi. In questo modo, ad esempio, Serena riuscì a vincere dominando la finale contro Sharapova, esibendo un tennis particolarmente scarno ed aggressivo (6-1, 6-2).
Ma in quel torneo prima della finale attraversò anche momenti difficili, di solito determinati da situazioni in cui lo scambio si allungava e diventava importante la mobilità.
A questo proposito Serena attuò una strategia in cui si può dire che anche la questione prossemica aveva una rilevanza. Un misto di scelte tecniche e psicologiche. Mi spiego: negli scambi sulle diagonali, Serena scelse di prendersi qualche rischio in più, rinunciando a fare proprio tutti i passi verso il centro necessari per coprire il lungolinea, consapevole del fatto che la maggior parte delle volte l’avversaria avrebbe comunque insistito sull’incrociato.
Avendo una capacità difensiva limitata, di fatto in questo modo Serena lasciava una parte di campo parzialmente sguarnita, trasformando lo scambio in una specie di sfida tecnico- psicologica. Quella parte vuota di campo agli occhi dell’avversaria era invitante, ma anche pericolosa. Come certe trappole con l’esca.
Era come se Serena dicesse alla sua avversaria: “io proteggo la diagonale, se tu vuoi fare il punto dimostrami di saper cambiare la direzione e provare il ben più difficile lungolinea. Sta a te decidere: puoi optare per il più sicuro incrociato, ma significa che mi troverai qui ad attendere la palla e a spingere il colpo, oppure puoi prenderti il rischio per cercare di mettermi in difficoltà. Se sei davvero brava e coraggiosa, fai il punto. Ma se sbaglierai, io avrò trovato il modo di fare un quindici spostandomi meno del dovuto”.
Inutile dire che, oltre all’abilità tecnica, alle sue avversarie era richiesta una grande tenuta psicologica. Perché una tale situazione diventa particolarmente difficile da affrontare quando i punti diventano pesanti e possono decidere i set e i match. Nei quarti di finale una giocatrice coriacea e di ritmo come Shahar Peer arrivò vicinissima a farcela (servì per il match sul 6-5 terzo set); ma alla fine Serena riuscì a spuntarla (3-6, 6-2, 8-6) e, come detto, a vincere anche il torneo.
Oggi Serena è una giocatrice in condizioni di forma ben superiori rispetto a quella stagione. Direi che dopo la pausa forzata del 2010 – 11 (e dopo la sconfitta-shock con Virginie Razzano al primo turno del Roland Garros 2012) ha enormemente migliorato il rendimento fisico. In questo momento negli spostamenti è particolarmente efficiente: si muove elastica e veloce, dopo gli scambi lunghi non accusa più la fatica (come in passato poteva accadere); durante il confronto sulle diagonali recupera il centro campo e nelle inversioni di direzione è sorprendentemente efficace (data la sua mole). E soprattutto difende alla grande.
Al contrario di altri periodi in cui approcciava la palla sempre a grandi falcate, oggi utilizza frequentemente i baby step ed è diventata molto più stabile e ortodossa nell’esecuzione dei colpi. Eppure molto spesso queste caratteristiche vengono sottovalutate, forse per il desiderio di far corrispondere per forza il tennis attuale di Serena agli stereotipi ereditati dal passato, che raccontavano una giocatrice immediatamente alla ricerca del colpo definitivo, sempre e comunque.
Invece in questo momento Serena ha molte più armi a disposizione rispetto ai tanti periodi in cui fisicamente non era altrettanto tirata a lucido. Potendo accettare lo scambio prolungato senza finire in apnea, le si aprono molteplici possibilità di gioco, compresa l’opzione di non prendere rischi e aspettare il gratuito dell’avversaria. E con questa qualità fisica non è un caso che sia tornata a vincere il Roland Garros dopo 11 anni.
Trovo interessante che la straordinaria efficienza tennistica degli ultimi tempi abbia probabilmente finito per mettere in secondo piano le doti caratteriali di cui parlavo prima. Oggi Serena nel body language appare meno granitica e decisa che nel 2007. Ma forse proprio perché c’è più sostanza fisico-tecnica, per lei è diventato meno necessario far credere di sentirsi sempre sicura e invincibile.
Tanto alla fine il risultato è quasi sempre lo stesso.