Cinquanta anni fa Arthur Ashe vinceva gli US Open per la prima ed unica volta: una ricorrenza speciale, alla quale la stampa statunitense non poteva non dare la giusta attenzione in occasione del cinquantesimo anniversario di quel successo. Ricordare alle nuove generazioni di appassionati chi fosse questo campione e gentiluomo, che tanto ha fatto e rappresentato anche fuori dal campo di tennis per la comunità afroamericana, è un dovere assolto da tanti media statunitensi in questi primi giorni di torneo. Particolarmente bella è stata la rievocazione compiuta da Bruce Jenkins sul Chronicle. Ashe fu capace nel 1968 di vincere sui campi in erba di Forrest Hills in finale su Tom Okker, dopo una battaglia di cinque set, dando una spinta in alto definitiva alla sua carriera. Arthur, che poi avrebbe anche vinto gli Australian Open nel 1970 e Wimbledon nel 1975, divenne il primo tennista di colore – e ancora oggi è l’unico afroamericano ad aver vinto ciascuno dei tre Slam suddetti – a trionfare in un Major. Tra le donne, prima di lui, vi era riuscita Althea Gibson, vincitrice al Roland Garros nel ’56 e agli US Open nel ’57 e ’58, anni in cui i tornei erano aperti ai soli tennisti non professionisti.
Era un tennis totalmente diverso da quello dei nostri giorni: basti pensare che in quella edizione del 1968, la prima nella quale fu permesso ai professionisti di giocare, tornarono a partecipare campioni come Laver, Rosewall, Hoad e Gonzales, precedentemente interdetti per sei anni, a causa della loro scelta di non essere più amateur. Ancora in quella edizione, i tennisti al cambio campo non avevano a disposizione il minuto per riposarsi: le sedie sul campo non erano nemmeno presenti. Il premio di 14.000 dollari riservato al vincitore, poiché Ashe era ancora dilettante, andò ad Okker e Arthur dovette accontentarsi del rimborso di 28 dollari giornalieri, per un totale di 280 complessivi.
Ma non è certamente per i soldi che giocava un uomo come Ashe, divenuto in quegli anni esempio e stimolo per gli altri afroamericani a praticare il tennis. Non va dimenticato come il campione di tre Major fosse nato a Richmond, in Virginia, dove era frequente leggere cartelli con su scritto, fuori i circoli da tennis (e non solo), “solo bianchi, accesso vietato ai Colored” o, ancora, gli altrettanto vergognosi “no Negroes“. Era davvero difficile, per i ragazzi di colore che lo volessero, intraprendere la carriera tennistica. Lo stesso Ashe ha ricordato come fossero difficili quei decenni, raccontando la situazione che si viveva e ha più volte meritoriamente ricordato l’importanza rivestta nella sua formazione tennistica dal suo mentore tennistico (che aveva già scoperto e lanciato Althea Gibson), il dottor Robert Walter Johnson.
“Specie nel Sud segregato, – ha ricordato Ashe dopo aver concluso la sua carriera – se qualcuno dei direttori dei tornei poteva trovare la minima scusa per cacciar fuori i ragazzi di colore, era praticamente certo che l’avrebbe usata. Johnson cercava ragazzi che potessero sopportare la pressione mentale e non esplodere in campo, imparando ad approcciarsi con moderazione sia alla vittoria che alla sconfitta. Quando giocavamo non avevamo giudici di linea, ma solo quello di sedia. Ciascun tennista chiamava le palle vicine alla propria linea e ogni palla vicino alle righe già si sapeva sarebbe andata al nostro avversario. Non ci rimaneva che giocare senza innervosirci il punto successivo, tenendo dentro la frustrazione“.
Non va dimenticato che Ashe vinceva gli US Open in un anno, il 1968, molto tempestoso per la storia americana e segnato dagli omicidi di Martin Luther King e Bobby Kennedy. Erano molto frequenti le rivolte razziali nel terrritorio statunitense e molti attivisti della causa afroamericana, anche sportivi celebri (basti pensare a John Carlos e Tom Smith alle Olimpiadi di Città del Messico) avevano atteggiamenti pubblicamente nervosi e combattivi verso la società statunitense che segregava le persone di colore. Comportamenti che non appartenevano però all’indole calma e riservata di Ashe, che si trovò criticato da entrambi i fronti della battaglia razziale, come ricorda il campione e collega Stan Smith: “Arthur si ritrovò tra i due estremi, ma lui non cambiò, rimase sempre coerente ai suoi atteggiamenti: rispettoso di tutti e riflessivo prima di parlare“. Nel documentario “Signature Series“, dedicato ad Ashe, si ricorda come proprio nell’anno del successo a Forest Hills, il campione di tennis – nel corso di un meeting di 35 leader neri al quale partecipò – fu invitato da uno dei più influenti, Jesse Jackson, a perorare in maniera diversa la loro causa, usando toni meno pacifici. Arthur, viene ricordato, rispose serafico e impassibile: “Jesse, ma semplicemente io non sono un tipo arrogante come te!“.
Eppure Ashe fece concretamente tanto per la gente di colore, basti pensare a come prese a cuore la causa della segregazione razziale in Sudafrica, nazione nella quale per tre anni gli fu negato l’ingresso. Grazie ai successivi viaggi in quel paese, ebbe una notevole influenza nella sconfitta dell’apartheid nello sport; in Sudafrica è ancora considerato la più grande arma avuta a disposizione dal popolo per raggiungere l’eguaglianza anche in quel settore. Lo stesso Yannick Noah, il cui padre era camerunense, vincendo nel 1983 il Roland Garros ebbe a ricordare come fu introdotto al tennis, grazie alla promozione effettuata in Africa dal contingente statunitense guidato da Ashe.
Come chiosa di quanto fatto da Arthur, stroncato nel 1993 dall’Aids contratto dopo la seconda operazione al cuore alla quale dovette sottoporsi dopo il ritiro dal tennis, forse uno dei più bei ricordi è quello dell’ ex tennista e Hall of famer Charlie Passarel: “Credo che adesso finalmente la gente stia capendo il grandissimo ruolo avuto da Ashe nella lotta per i diritti civili. Ogni cosa da lui fatta è d’esempio, non c’è niente di cui lo si potesse davvero accusare. Ha cambiato le persone, ha cambiato il mondo“.