1. Il futuro di Serena Williams
Scrivevo la scorsa settimana che la questione tra Serena Williams e Carlos Ramos ha finito per mettere in ombra il successo di Naomi Osaka: un vero peccato. Ma in realtà quell’episodio ha messo in ombra un po’ tutto il torneo, incluse le altre partite della stessa Williams: altro peccato. Quest’anno sto archiviando le decisioni arbitrali più controverse in vista di un articolo specifico che uscirà a fine stagione; ci sarà quindi l’occasione per riprendere l’argomento più avanti, a mente fredda. Qui vorrei piuttosto ragionare su come procede il rientro di Serena nel circuito, alla luce delle prestazioni newyorkesi.
A Indian Wells e Miami, Williams era apparsa ancora lontana da una reale competitività. Ma poi, torneo dopo torneo, Serena ha sempre progredito. Dopo il Sunshine Double ha disputato tre Slam con risultati sicuramente degni di nota: un terzo turno e due finali. Ha vinto tre match a Parigi (superando due Top 20 come Barty e Goerges), prima di ritirarsi dal torneo per precauzione a causa di un problema ai muscoli pettorali. Quindi al Roland Garros non è stata un’avversaria a fermarla, ma una certa “ruggine” emersa nell’affrontare più partite ravvicinate. Il guaio fisico si era verificato durante il torneo di doppio, a cui Serena aveva deciso di prendere parte, forse sopravvalutando la propria resistenza allo sforzo.
Poi nei due Slam successivi, Wimbledon e Flushing Meadows, ha sempre raggiunto la finale. In finale ha però trovato avversarie che l’hanno sconfitta in modo netto, in due set nemmeno troppo combattuti: sei game raccolti contro Kerber a Londra (6-3, 6-3) e sei game contro Osaka a New York (6-2, 6-4).
Direi quindi un bilancio complessivamente positivo, con tante luci e qualche ombra. Dopo Wimbledon mi ero fatto l’idea che Serena fosse a un punto di condizione tale da essere già in grado di spuntarla sulle attaccanti, ma ancora non pronta ad affrontare le migliori difensiviste del circuito. Pensavo cioè che avrebbe avuto bisogno di crescere nella mobilità per essere all’altezza di chi era in grado di allungare lo scambio, ma che sui colpi “da ferma” fosse tornata ad essere molto competitiva. Oggi non ne sono più così convinto e sono leggermente più pessimista; lo dico dopo aver assistito alle sconfitte contro Kvitova (a Cincinnati) e contro Osaka: due tenniste di stampo offensivo che hanno avuto la meglio su Serena a partire dai colpi di inizio gioco (il complesso servizio/risposta). Segno che forse c’è ancora qualcosa da sistemare anche in questi ambiti.
Ma al di là del singolo aspetto tecnico, c’è una questione più generale da considerare. Serena sta vivendo un periodo di carriera inevitabilmente e intrinsecamente contraddittorio: da una parte avrebbe bisogno di tempo per recuperare la migliore condizione, senza mettersi troppa fretta. Ma dall’altra, a 37 anni (li compirà il 26 settembre), il tempo è anche il suo primo nemico: ogni giorno che passa è un giorno di avvicinamento al declino determinato dall’età.
Sicuramente la prima a essere consapevole di questa situazione è Serena stessa; ed è come se affrontasse ogni Slam combattuta da questi opposti: in quanto atleta rientrante dalla gravidanza non può oggettivamente considerare negativi i risultati che ha ottenuto, né pretendere tutto e subito; ma in quanto trentasettenne alla rincorsa del record di Margaret Smith-Court (i 24 Slam da raggiungere e magari superare), ogni Major che passa senza vittorie risulta una preziosissima occasione persa, dato che non saranno molte quelle che avrà prima che l’età presenti il conto. E proprio questa consapevolezza non la aiuta ad affrontare le finali Slam con lo stato d’animo migliore.
Ci sono anche alcuni numeri a certificare che il tempo è diventato per lei soprattutto un nemico. In carriera fra i suoi grandi record non aveva solo il numero di Major conquistati, ma anche la percentuale di vittorie nelle finali Slam: il dato di tre anni fa era di 21 vittorie e appena 4 sconfitte (84,0%). Questo fino al 2015, l’anno in cui aveva sfiorato il Grande Slam, mancato di un soffio con la caduta al 27mo ostacolo (su 28 totali da superare) contro Roberta Vinci a Flushing Meadows. Aveva allora 34 anni (da compiere qualche giorno dopo).
Ma dal 2016 i numeri indicano un cambiamento: nelle finali Slam degli ultimi tre anni ha raccolto lo stesso numero di sconfitte che aveva subito in tutta la carriera, quattro, a fronte di “soltanto” due vittorie. Il 2-4 significa un calo al 33,3% di successi in finale.
Passare da 21-4 a 2-4 nelle finali Slam dà la misura di una fase di carriera differente, e non è detto che psicologicamente Serena sia del tutto pronta ad affrontarla, visto che ha formato carattere e mentalità nel lungo periodo in cui il successo nelle finali era un esito quasi scontato. Anche per queste ragioni sarà interessante scoprire come evolveranno le cose l’anno prossimo.
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