Siamo qui a Lille, al capezzale di una Davis forse moribonda. Di certo quella che c’era una volta, e che c’è stata per 118 anni, non ci sarà più. I nostalgici vorrebbero cambiar nome alla nuova versione che sembra lontana, lontanissima parente, però l’ITF non ne vuole sapere di perdere il suo brand, anche se proprio Haggerty l’ha voluto snaturare. Va detto, d’altra parte a sua scusante, che qualcosa doveva fare, perché se tutte le federazioni (o quasi) che formano parte integrante dell’ITF perdevano valanghe di quattrini partecipandovi, affrontando le trasferte ma anche ospitando incontri in casa di scarso richiamo – non esiste solo il World Group a 16 squadre che un po’ di spettacolo tecnicamente valido lo ha spesso offerto – la situazione era diventata insostenibile. Ed è vero che la finale di Coppa Davis finiva per interessare grandemente i Paesi protagonisti, ma finiva nelle “brevi” dei giornali di tutti gli altri Paesi ed era ignorata dalle tv di tutto il mondo (salvo che che da Supertennis).
C’erano difetti che avrebbero potuto e dovuto essere eliminati già in passato, come quello di una squadra vincente a dicembre e già eliminata a febbraio che era assurdo. Ma si può fregiarsi di un titolo paragonabile a “campioni del mondo” per soli due mesi? Una dirigenza appena un po’ più coraggiosa avrebbe potuto ovviarvi facilmente assegnando un bye alle due squadre finaliste, ammettendole direttamente ai quarti di finale di aprile (meglio che niente), ma il timore di scontentare due Paesi (e soprattutto le loro federazioni) con un format che comprendesse soltanto 14 Paesi invece di 16 aveva portato all’immobilismo perpetuo.
Insomma Haggerty ha trovato i soldi, tanti soldi, perché fra Kosmos, Piqué e Larry Ellison – assistiti dalla Deloitte che i conti e i business plan dovrebbe saperli fare – si tratta di recuperare almeno 100 milioni di dollari l’anno se se ne vuole investire 3 miliardi in 25. E con quelli ha cercato di convincere le varie federazioni a compiere questa rivoluzione davvero radicale che dovrebbe nascere se non si raggiungerà un diverso accordo con l’ATP e si fonderanno i due eventi, Coppa Davis e la neonata ATP Cup. Con quei soldi ha convinto più del 75% delle federazioni a votare per la riforma che oggi come oggi fa storcere il naso ai più.
Di certo Mr. Dwight Davis quando agli albori del 1900 ordinò nell’elegante gioielleria di Boston Shreve&Low&Crump quella strana “bowl” a forma di insalatiera d’argento per metterla in palio contro gli inglesi – sconfitti dal team USA perché i due miglior Brits, i fratelli Reggie e Laurie Doherty, pluricampioni a Wimbledon, rifiutarono il viaggio in nave – non avrebbe mai immaginato che stava nascendo un evento leggendario capace di coinvolgere 125 nazioni. Più di qualsiasi evento sportivo al mondo.
118 anni dopo quel duello angloamericano giocato in pantaloni di flanella beige, la Coppa Davis celebra questo weekend a Lille con Francia-Croazia la finale numero 106 che – come ha scritto Christopher Clarey sul New York Times – pare quasi un funerale. Sarà l’ultimo De Profundis infatti a disputarsi in 3 giornate, 4 singolari e un doppio 3 set su 5, dopo che più di quel 75 % delle federazioni nazionali a corto di denari – c’è chi ha patteggiato di tutto prima di dare il voto di scambio: richieste di wild card, azzeramento di debiti, garanzie di diritti tv… – ha sorprendentemente votato per la sua sepoltura. L’evento perderà in magia, guadagnerà in dollari. Se decollerà. Nel 2019 non saranno due nazioni a giocarsi la finale ma 18, in una concitata settimana di novembre a Madrid, anche se l’ITF sta ancora trattando per ottenerne (per il 2020?) due a settembre regalando in cambio all’ATP una delle quattro settimane fino a quest’anno usate per primo turno, quarti, semifinali e finale di Davis.
L’ITF aveva fino a pochi giorni fa lanciato, a mo’ di provocazione, il progetto di una Majestic Cup per 32 giocatori nella sua settimana di aprile (che ora alla nuova Davis non serve più: è rimasta la prima settimana di febbraio perché le 24 squadre in lizza diventino 12): questa Majestic Cup avrebbe messo in palio due milioni di dollari da dare a un solo giocatore, sul tipo del vecchio slogan americano “the winner takes all”. Sembrava un progetto folle – e come facevano a convincere i tennisti non top-ten a partecipare sapendo che non avrebbero vinto comunque un duino? – ma forse era semplicemente un’azione di disturbo che l’ITF si è ora fortunatamente rimangiata. Haggerty sostiene ora che la recente settimana di Londra, con i vari responsabili dell’ATP Chris Kermode e company, “sia stata la più proficua di sempre”. Vedremo se la soluzione di compromesso sarà quella di arrivare a fare un unico evento – ma in tal caso chi la gestirebbe? Chi prenderebbe eventuali guadagni? Che fine farebbe Piqué, la Kosmos, Ellison… oppure l’ATP? – o se invece ce ne saranno due più distanziati nei mesi in modo che i giocatori possano prendere soldi da una parte e dall’altra.
I giocatori che oggi si professano tutti grandi patrioti e grandi amanti dello sport di squadra, ma che in realtà – e qui parlo per i top top – ogni volta che hanno conquistato una prima Coppa Davis se ne sono infischiati di partecipare alla successiva. Se Federer, Nadal e Djokovic avessero considerata prioritaria la loro partecipazione alla Davis nello stesso tempo, la Davis non avrebbe avuto i problemi che ha avuto. Federer e Nadal si sono scontrati 38 volte nella loro carriera ma mai in Davis. Djokovic ha affrontato Nadal e Federer in Davis una sola volta, e prima che lui diventasse il n.1 del mondo.
Vabbè, ormai sono qui a Lille e parliamo di una Coppa Davis che negli ultimi anni è sempre finita nella bacheca delle squadre ospiti. Dovrebbe, sulla carta, succedere anche quest’anno. Chardy n.40 contro Coric n.12 non è certo favorito anche se in 6 match di Davis ne ha vinti 5 e l’unico che ha perso è stato con Fognini a Genova. Ma Chardy – dicono i francesi – adora giocare sulla terra rossa indoor (situazione non tanto comune) e per questo Yannick Noah, sempre a caccia di scelte originali (un po’ per ego, un po’ perché ha senso psicologico come dimostrano i suoi successi da capitano) lo ha preferito a Pouille. E tantomeno favorito dovrebbe essere il vecchio leone Tsonga, 33 anni, con Cilic, sebbene quest’ultimo non si dimostri sempre un vincente nato. Se putacaso la Francia riuscisse a vincere un singolare, però, ecco che forse con il doppio Mahut/Herbert potrebbe passare addirittura in vantaggio. Mai dire mai allora.