Ridi Petra. Piangi Petra. C’è gente che ha avuto mille cose, tutto il bene e tutto il male del mondo. Così Petra Kvitova da Bilovec.
Era stato facile, quasi naturale prevedere che quella mancina ceca, dal gioco potente ed al contempo leggero e soave, sarebbe arrivata in alto. Fu proprio un’altra mancina ceca, o meglio LA mancina ceca, ad anticiparle un futuro da dominatrice del tennis in gonnella. Quando quel giorno di luglio del 2011 il centrale di Wimbledon vide spazzare via l’allora reginetta Maria Sharapova nella finale dei Championships, tutto sembrava pronto, scritto e un’ideale linea di congiungimento pareva tracciata con la divina Martina Navratilova, nove trionfi sull’erba londinese e diciotto nello Slam, per limitarsi al singolare. La passeggiata delle due sulla sacra erba nell’inverno londinese sembrò suggellare il passaggio di consegne. “È stato speciale, solo io e Martina. Abbiamo camminato e parlato in ceco. Era il mio idolo quando ero piccola. Abbiamo girato per il club ed era tutto vuoto. Non c’era nessuno, ma sul tabellone c’era il punteggio della finale con Sharapova” – raccontava emozionata la fresca campionessa.
E fu proprio Martina, all’indomani di quell’inaspettato trionfo a pronosticare alla sua connazionale un radioso futuro, addirittura da dominatrice del tennis mondiale. Per la verità l’auspicio della Navratilova non trovava appigli solo nella speranza patriottica di rivedere una tennista ceca davanti a tutte: la allora ventunenne Petra sembrava possedere tutte le armi tecniche per assumere le redini del movimento femminile, complici le Williams avvilite dai problemi fisici, una Sharapova balbettante e le altre top-ten non irresistibili.
Dritto mancino forte e penetrante, rovescio bimane capace di trovare angoli strettissimi, un servizio notevole ed una buona predisposizione a frequentare la rete con ottimi risultati. Con questo invidiabile bagaglio tecnico Petra era arrivata al successo londinese dopo essere entrata per la prima volta nelle prime dieci con il successo sulla terra in altura di Madrid. Che qualcosa di anomalo girasse nella sua testolina si capì subito quando da top-ten snobbó gli Internazionali d’Italia per giocare il torneo ITF di casa (Praga). La sconfitta al primo turno degli US Open per mano di Dulgheru fece sorgere da subito alcuni dubbi sulla capacità della ceca di gestire al meglio la sbornia post-Wimbledon, ma il finale di stagione, con i trionfi in Fed Cup e al Masters, sembravano lanciare la volata al 2012 da numero 1 predestinata. Ed invece, dopo la semifinale in Australia e il raggiungimento della seconda posizione del ranking, si spegneva la luce.
Tanti alti e bassi ne segneranno il prosieguo della carriera, il meraviglioso bis a Wimbledon del 2014 quando lasciò appena tre game a Bouchard e tante inopinate sconfitte. Tra una mononucleosi che ne limitò i movimenti, una tendenza a prendere qualche chilo di troppo e la sensazione di una scarsa capacità di concentrazione. Ma le belle storie, le favole a lieto fine, devono avere sempre un orco. Un incubo che diventa realtà, un pozzo nero dal quale risalire verso il sogno che sembra perduto.
A fine dicembre del 2016 un ladro, un pazzo, un criminale entra nella sua casa di Prostejov e la aggredisce. Petra si difende, utilizzando forse inconsciamente la sua arma migliore, quella che tanti grattacapi ha creato alle sue avversarie, la sua mano mancina. Purtroppo però il delinquente ha un coltello e la mano di Petra finisce con i legamenti e i tendini lacerati. Quattro ore di intervento cercano di salvare il salvabile, ma i medici non sono tanto ottimisti. Ovviamente il problema non è solo nella mano. “I primi giorni dopo l’aggressione sono stati i peggiori, non riuscivo a dormire e quando uscivo di casa mi guardavo attorno fissando gli uomini per capire se fossero malintenzionati”.
Ma Petra non si arrende, non si chiama così per caso, e dopo cinque mesi di dolore, angoscia e riabilitazione, torna a giocare smentendo tutti quelli che le avevano predetto il ritiro dalla scena agonistica, compresi quei dottori che “non mi avevano detto la verità per non scoraggiarmi, ma nemmeno loro credevano che sarei più riuscita ad impugnare una racchetta da tennis”. E così il 28.05.17 è la sua nuova data di nascita. Il Roland Garros le offre il palcoscenico del campo centrale e Petra ritorna a fare quello che ama, superando mesi di dubbi e paure. “A marzo ho ripreso a colpire delle palline più leggere, mi sono sentita strana ma felice. Adesso quando mi ritrovo all’aperto guardo il sole e penso: ‘Oh, tutto questo è meraviglioso’“.
Nel box di Petra quel giorno tutti indossano una maglietta nera con sopra scritto “Courage, Belief, Pojd”, ed anche Kasatkina e Hradecka sono presenti per applaudire il suo ritorno. Parigi si commuove dinanzi al sorriso di Petra bagnato di dolci lacrime, le colleghe la abbracciano ma tutte pensano che la storia sia finita lì, con un’incredibile ritorno in campo. “Era incostante prima figurati ora” pensano un po’ tutti ma nessuno le rimprovera più le sconfitte subite in rimonta contro avversarie con un decimo del suo talento. Piano piano Petra risale e nel 2018 vince 5 tornei tornando in top-10. Fa male, anzi malissimo negli Slam e questa sembra la sua nuova dimensione, ma in fondo con tutto quello che ha passato e con le nuove leve all’orizzonte, non si può chiederle nulla di più.
E invece il 2019 comincia con un ghigno sotto il solito incantevole sorriso. Tirata a lucido vince a Sydney, una settimana prima degli Australian Open, dopo alcune battaglie massacranti. La solita Petra – dicono molti – che si ammazza nei tornei minori e scoppia negli Slam. La Storia invece, proprio nell’Arena intitolata ad un altro incredibile mancino, si ferma solo davanti alla nuova numero uno. Chissà, forse anche Petra riuscirà ad issarsi lì dove l’aveva immaginata Martina o forse tornerà a perdere tante partite. La storia però non la scrivono solo i vincitori.
C’è gente che ama mille cose e si perde per le strade del mondo. Non Petra dei miracoli.