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“Forse più tardi, quando vedrò mia sorella, potrei dirle ‘Indovina chi è la numero uno del mondo? Io!’. Sì, forse lo farò“. Ebbene sì, la 26esima numero uno della storia del tennis femminile, nonché la più giovane a riuscirci dai tempi – era il 2010 – dell’allora ventenne Wozniacki, è l’inconfondibile Naomi Osaka. Quando però hai solo 21 anni e hai appena conquistato il tuo secondo Slam consecutivo, e i numerologi si affrettano a ricordarti che l’ultima giocatrice a vincere i primi due Slam consecutivamente è stata Jennifer Capriati un paio di decadi fa (ne avrebbe poi vinto soltanto un altro, difficilmente sarà il caso di Naomi), la tua scalata alla vetta del ranking passa quasi in secondo piano.
C’è da raccontarsi come una ragazzina che un anno fa sedeva al 72esimo posto della graduatoria e faticava a giocare i colpi ‘normali’, perché schiava del suo stesso talento nel generare vincenti poderosi, abbia oggi imparato persino a gestirsi, a difendere, a stringere i denti. E come quell’innata timidezza sia trascolorata in una ferrea determinazione, capace oggi di cancellarle dalla mente la sciagura dei tre match point falliti nel secondo set per lasciare posto a una gestione quasi robotica delle emozioni, con il preciso intento di evitare un nuovo tracollo. “Mi sono sentita vuota, come fossi una specie di robot. Stavo solo eseguendo i miei stessi ordini. Ho letteralmente cercato di azzerare i miei sentimenti. Non saprei spiegarlo, eppure stavo facendo quello per cui mi sono allenata tutta la vita. Non volevo sprecare energie reagendo in modo eccessivo, ma verso la fine ho iniziato a rendermi conto della situazione e ho ricominciato a incitarmi”.
Ci sono stati dei momenti della finale, soprattutto nel primo set, in cui si è avuta la sensazione che Kvitova avesse ‘più tennis’ di Osaka, che potesse contare su un ventaglio più ampio di soluzioni. È stata la ceca ad andare più vicina a ottenere un break e tirare più vincenti nella prima ora di gioco, eppure il tie-break ha preso la via del Giappone a dispetto delle indicazioni del campo. Quel margine psicologico, che può indirizzare partite, tornei o addirittura intere carriere, oggi Osaka l’ha gestito e ampliato con una disinvoltura che sarebbe quasi oltraggioso richiedere a una ventunenne, vista l’epoca di maturazioni lente e tardive. “Ho pensato di essere stata parecchio fortunata nel tie-break. Non avevo vinto molti punti sul suo servizio prima, quindi la mia mente ha immaginato che se avessi dovuto giocare un altro tie-break forse non sarebbe andata bene…“.
Il tennis però non è uno sport cumulativo. I punti non si assommano come i gol nel calcio e la memoria della partita si azzera ad ogni game, e poi ad ogni set, tanto che alcuni quindici finiscono per pesare il triplo degli altri. La risposta di rovescio lungolinea con cui Osaka ha preso il primo vantaggio nel tie-break, per esempio, ha avuto un enorme peso specifico perché maturata in una situazione di gioco estremamente favorevole alla ceca, ovvero il servizio a uscire da sinistra. In un certo senso la finale strappata a Kvitova è la fotografia di come questo successo australiano di Naomi differisca da quello di New York, ottenuto passando come un cingolato su quasi tutte le avversarie. Uno Slam più sofferto, più maturo, e per questo più difficile da vincere. Dal rischio concreto di essere eliminata già contro Hsieh al terzo turno, passando per le difficoltà contro Sevastova e la bella semifinale contro Pliskova, che se non ha giocato il miglior tennis della carriera in queste due settimane poco ci manca. Osaka ha gestito pressioni interne ed esterne, ha vinto contro avversarie di valore e anche contro se stessa, una cui parte – la più difficile da controllare, perché inconscia – ha tentato di sottrarle la meritata celebrazione che sull’Arthur Ashe aveva ricevuto soltanto a metà, per via di vicende ormai arcinote. Dispiace tanto per Petra, che uno Slam continuerà a meritarlo finché avrà voglia di stare in campo e chi scrive, se potesse, glielo pagherebbe di tasca sua, ma oggi è stata in tutto e per tutto la giornata di Naomi Osaka.
Delle timide lacrime che le hanno rigato il volto durante la pausa tra secondo e terzo set non c’è stata nessuna traccia fino al momento in cui, appena dopo aver scagliato l’ultimo servizio vincente del suo torneo, Naomi si è seduta, ha nascosto il volto nell’asciugamano e si è leggermente commossa, questa volta di gioia. Poi si è esibita nel terzo traballante discorso della sua carriera, tre come i tornei – uno più pesante dell’altro – che finora ha vinto. ‘Hello‘ ha cominciato, ha fatto i complimenti alla sua avversaria che poco prima era sfuggita alle lacrime per un soffio, pure lei, ha disseminato qualche ‘uhm’ qui e là e poi ha ringraziato un po’ tutti alla rinfusa, dal suo team ai tifosi, persino i raccattapalle ‘che corrono sotto il caldo‘. Incapace di tenere in mano il pesante trofeo ricevuto dalle mani di Li Na – “non mi aspettavo di trovarla lì, all’inizio ero scioccata. Da un lato volevo piangere ma dall’altro non volevo piangere sul podio“, avrebbe detto in proposito in conferenza – l’ha lasciato per poi riprenderlo in mano poco dopo.
“Mi piacerebbe vincere ancora Indian Wells. Poi giocherò a Miami e spero di vincere anche lì. Di solito quelli che vincono entrambi i tornei sono i migliori giocatori del mondo. Sarà il mio obiettivo“. Vincerà altri Slam, chissà quanti, forse andrà in doppia cifra e magari si scioglierà, un giorno apparirà meno trasognata di così. Però ragazzi, che ventata d’aria fresca – e che bellezza genuina – Naomi Osaka.