Quel “può essere che troppe cose extra campo mi abbiano influenzato negativamente” ha aperto un fronte insidioso. Cosa frulla nella testa di Djokovic? Il secondo precoce ko nei due tornei del Sunshine Double (“ma è accaduto anche l’anno scorso“, ricorda il serbo) moltiplica i dubbi su come il numero uno del mondo abbia gestito questo inizio di stagione. A Melbourne il terzo successo Slam consecutivo al culmine di mesi da dominatore a cavallo delle due stagioni, poi la scelta di ben cinque settimane senza tennis. Al termine delle quali si è riproposto scarico a Indian Wells (ko al secondo turno contro Kohlshreiber) e svagato a Miami, dove è sbattuto per la seconda volta di fila, dopo Doha, sul buon Bautista Agut.
Ragionando a caldo sulla partita, Djokovic non ha cercato nemmeno l’alibi nella mezz’ora di interruzione per la pioggia quando era sotto 5-4 nel secondo set. “Non è stato quello il problema – la sua analisi -, dopo un buon primo set nel secondo ho perso il ritmo, gli ho aperto un varco per rientrare in partita e lui l’ha sfruttato, dando il via a una grande rimonta. Ma la colpa principale è la mia, per le troppe occasioni che ho buttato via“. L’andamento, tra l’altro, è stato lo stesso delle ultime due sfide contro il trentenne spagnolo: dopo aver allungato nel primo set, Nole ha lasciato per strada il secondo riaprendo la contesa. Se è riuscito a portarla comunque a casa a maggio al Roland Garros, la situazione gli è sfuggita di mano sia in Qatar sia sul nuovo cemento della Florida.
L’avvicinamento alla stagione europea su terra (prossima tappa) ha lasciato evidentemente a desiderare, ma il rovescio della medaglia è rappresentato dalla possibilità immediata di alzare gli standard di rendimento rispetto alla mediocrità statunitense. “Lo spero, sul rosso ci sono cresciuto e sapete quanto mi piaccia giocarci, nonostante la maggior parte dei miei successi sia arrivata sul cemento“. E il tema superficie va chiaramente a ricollegarsi al sogno parigino, a quel desiderato secondo successo in carriera al Roland Garros che gli consentirebbe di chiudere il cerchio dei quattro Slam consecutivi, pure se divisi tra 2018 e 2019. A chi gli ha chiesto se questi tentennamenti di inizio primavera siano addebitabili a una preparazione orientata sui Major, Djokovic ha risposto sibillino: “Gli Slam sono i tornei che contano di più, è chiaro che io debba dargli la priorità. Ma non è un’evoluzione di adesso, queste sono le linee guida della mia preparazione da molti anni“.
Indiscutibilmente, se parliamo del Djokovic che abbiamo lasciato a Melbourne Park, il Roland Garros – in presenza di un Nadal in forma decente – si presenta come l’insidia maggiore sulla strada di un possibile filotto di Major consecutivi. Il teorema di una preparazione orientata ad arrivare nel migliore dei modi a Parigi ha fondamenta teoriche per rimanere in piedi, pur in assenza di riscontri diretti. Ma la crisi di risultati del numero uno al mondo non può non aprire il campo anche ad altre valutazioni.
Sulla strada verso i 32 anni si può ipotizzare un momento di logorio fisico, anche se quel riferimento alle dinamiche esterne al tennis ha fatto tornare facilmente indietro la memoria all’ultimo tunnel oscuro (più sul piano motivazionale che fisico) attraversato da una personalità affascinante e allo stesso tempo complessa. Ne è uscito fuori meno di un anno fa, prima di tornare a dominare: Wimbledon, US Open, Shanghai, le finali perse al 1000 di Parigi e al Masters di Londra. Ecco perché il jolly di un paio di serate storte, anche in sede d’analisi, possiamo ancora concederglielo. In attesa che la stagione europea ci dia le sue risposte.