Da quelle parti si trova bene e le faccende professionali le riescono anche discretamente: 12 settembre 2015, derby italiano, addirittura derbyssimo pugliese, nell’ultimo atto di una delle edizioni più leggendarie della saga newyorchese. Roberta Vinci che spezza nel delirio il sogno Slam, ormai a meno di un passo dal divenire realtà, di Serena Williams, e la finale ceduta a una Flavia detonante e prossima alla conclusione della carriera in grandissimo stile. A New York, per New York, Flavia è tornata a lavorare per conto di Eurosport, che le ha affittato un angolo nel palinsesto di casa: l’angolo di Flavia, per l’appunto.
Il nostro direttore e Luca Baldissera hanno approfittato della situazione per rivolgere a Pennetta e a Marion Bartoli, anche lei impiegata nella scuderia dell’emittente panaeuropea, alcune domande su svariate porzioni dello scibile tennistico. Quelle relative al futuro della WTA le abbiamo estrapolate in apposita flash, lasciando qui spazio per alcuni ragionamenti sulle molte e difficili intersezioni tra professionismo e famiglia. Ma non solo.
SCANAGATTA: Vorrei chiedere a Flavia quanto una moglie può influenzare il gioco, l’attitudine e il comportamento di un giocatore… in generale!
PENNETTA: Sai, è difficile essere una moglie e dare anche qualche consiglio da ex giocatrice. Qualche volta tuo marito vuole stare con te e parlare, altre volte non vuole nemmeno vederti, quindi devi trovare un bilanciamento! A volte puoi parlare, altre volte devi solamente essere presente, senza dire nulla. Voglio dire, io cerco di aiutare Fabio come posso, gli do alcuni consigli…
SCANAGATTA: Ad esempio?
PENNETTA: Beh… qualche volta lavoro anche con lui in campo. Ho un video dove ci sono io che gli passo le palline! Ma in generale, cerco di aiutarlo in tutto, dall’organizzazione della giornata e dei viaggi, qualche volta gli do dei suggerimenti in campo.
SCANAGATTA: Non facile…
PENNETTA: No, non facile. Ma sai, penso che in una relazione di coppia sia sempre complicato parlare della professione dell’uno o dell’altra.
SCANAGATTA: Una domanda per Marion. Secondo la tua visione delle cose, sapresti spiegare perché moltissime giocatrici sono legate mani e piedi a padri o madri molto influenti? Perché credi che capiti più di frequente in ambito femminile? E ancora, quanto è importante che ogni tanto i padri chiedano l’aiuto di qualcuno di esterno? Alludiamo anche alla situazione di Camila Giorgi…
BARTOLI: Abbiamo un caso interessante attualmente in Francia, quello di Caroline Garcia, sono sicuro che ne hai sentito parlare. All’inizio tutti sembravano essere contenti della costante presenza di suo padre, perché pensavano che la sua autorità le facesse bene, ma poi, quando è scesa un po’ troppo nel ranking, suo padre è diventato la causa di tutto.
Il mio parere è che alla fine dei conti sia sempre il giocatore il responsabile principale della sua situazione e che debba essere lui a prendere le decisioni più importanti, perché è lui che gioca i punti e che colpisce la palla. Ciò detto, in caso di necessità è l’atleta stesso l’incaricato di cercare qualcuno che gli dia una mano in alcune aree specifiche. Magari un aiuto psicologico o fisico, o proprio dal punto di vista del gioco. Qualsiasi cosa sia, è il giocatore, in quanto professionista, a dover scegliere il proprio indirizzo. O quantomeno a dare l’input corretto a chi lo consiglia.
A volte ci sono genitori pressanti al punto da produrre figli che in campo diventano ciechi, incapaci di comprendere ciò che stanno facendo; che sembra quasi stiano giocando per qualcun altro: non inseguono nemmeno più risultati per loro stessi, ma per i propri genitori. Quando è così, la situazione è tossica, perché penso che ognuno debba prendersi le proprie responsabilità, in campo come nella vita. Se ritieni che tuo padre sia la persona migliore per aiutarti, benissimo; ma se senti che lui, ad esempio, non sia abbastanza preparato tecnicamente o non ti alleni nella maniera migliore, allora dovresti cambiare. Magari potresti tenere vicino la famiglia come punto di riferimento affettivo, perché viaggiare nel tour da soli è difficile, ma l’importante è saper capire la propria situazione e dividere i compiti in modo opportuno.
A me è capitata una cosa simile: a un certo punto ho capito che mio padre non era più sufficiente e che avevo bisogno di cambiare qualcosa per provare a realizzare il mio sogno, e sono stata in grado di farlo. Gli ho detto: “Papà, lasciami essere me stessa, lasciami provare”. Ogni tanto vedo delle giocatrici che… non si può neanche dire che non si prendano la responsabilità in campo, perché proprio non capiscono cosa stia accadendo loro.
Poiché sarebbe un peccato non approfittarne, alla campionessa di Wimbledon 2013 chiediamo a questo punto un parere sulle qualità della più recente reginetta di Church Road. Quella Simona Halep che, cresciuta con l’etichetta di pervicace terraiola addosso, ha addirittura trionfato in quello che una volta era da tutti considerato il tempio della velocità applicata al tennis. Una volta, appunto.
BARTOLI: Beh, l’erba è diventata così lenta che non credo ci sia nemmeno bisogno di chissà quali aggiustamenti! Davvero, i prati oramai sono così lenti che non penso ci sia proprio molta differenza con la terra, eccezion fatta per il rimbalzo. A un certo punto c’era una storia in giro che attribuiva l’incredibile rallentamento delle condizioni di gioco alle palle, ma in realtà è proprio l’erba che restituisce la palla molto più lentamente. Le condizioni di gioco qui (a New York, NdR) sono molto più veloci che a Wimbledon. Alla fine questo ha aiutato molto Simona a Londra, perché lei è in grado di muoversi benissimo, cosa in genere complicata da fare sull’erba, ed ha saputo difendersi egregiamente. Si è visto nella finale, Serena ha cercato di attaccare, ma Simona rispondeva a tutto e alla fine è stata lei a sbagliare. In definitiva, non penso che per lei faccia molta differenza la superficie di gioco, se riesce a muoversi così bene.
Il suo miglioramento più grande, a mio parere, è stato dal punto di vista mentale. Ho giocato contro di lei quando era appena arrivata nel Tour ed era così emotiva che le si poteva quasi leggere in faccia ogni sentimento che provava. Dal punto di vista mentale ha attraversato momenti difficili, ma poi è riuscita a capire di avere tutto ciò che le serviva per vincere un Grande Slam, e ovviamente ha vinto il Roland Garros. Poteva vincerne un altro, ma il modo in cui ha saputo ricompattarsi e prepararsi per Wimbledon è stato davvero impressionante.
BALDISSERA: Solo una cosa, Flavia. Capita qualche volta di uscire la sera con Roberta e ricordare con lei quella finale in cui avete giocato per i Campionati della regione Puglia all’Arthur Ashe di New York? Ne parlate mai?
PENNETTA: L’ultima volta che ci siamo viste è stato a Milano, abbiamo pranzato assieme e abbiamo parlato di tutto, fuorché di quella finale, devo dire! (risata). Non perché non sia importante, è stata l’evento più significativo delle nostre carriere, ma quando incontri un’amica dopo tanto tempo parli della vita quotidiana. Io, lei e Francesca (Schiavone, NdR) ci teniamo in contatto e cerchiamo di vederci quando siamo a Milano, ma parliamo di vita normale, non di tennis! Beh.. con Francesca anche di tennis! Al Roland Garros, quando gioca Fabio o qualcun altro, commentiamo insieme: “Hai visto questo? Hai visto quest’altro?”.
Grasse risate accompagnano la fine di questo meraviglioso siparietto…