Di sicuro c’era una cosa, un paio di mesi fa: Denis Shapovalov sarebbe stato uno degli avversari di novembre di Matteo Berrettini per le nuove finali di Coppa Davis. Chi avrebbe invece potuto prevedere che prima dell’incrocio di Madrid, per un cruciale intervallo di 61 minuti, Denis sarebbe stato il più prezioso alleato di Matteo nella corsa alle ATP Finals?
Invece è andata proprio così, perché il ventenne canadese ha riversato tutto il suo splendore tennistico di questa settimana a Bercy su uno stanco Gael Monfils, rimasto l’unico avversario di Berrettini per l’ottavo posto alle Finals. Al francese serviva ancora una vittoria per scavalcare Matteo, ma Shapovalov gliel’ha negata a suon di vincenti infischiandosene del pubblico parigino, che non è mai riuscito a trasformare la partita in una guerra di nervi. E dopo aver regalato all’Italia una qualificazione che mancava da 41 anni – lo avrete ormai sentito in tutte le salse, Barazzutti centrò il traguardo nel 1978 – Shapovalov ha subito comunicato un piccolo sgarbo ai tifosi italiani, quasi per contrappasso, ritirandosi dalle Next Gen Finals di Milano pronte a cominciare il prossimo lunedì.
Un doveroso grazie a Denis, ma queste righe sono e non potrebbero altro che essere per Matteo. Con la massima parzialità, nonostante l’ovvia soddisfazione per il traguardo appena raggiunto da un ragazzo italiano di 23 anni, possiamo anche azzardarci a dichiarare che è davvero giusto così perché Berrettini lo meritava più di Monfils. Perché in semifinale a New York ci è andato lui, battendo ai quarti proprio il francese, perché quest’anno ha vinto dieci partite in più e un torneo in più (anche se quello di Monfils è un 500 e i due di Berrettini sono 250) e perché sul terreno di sfida decisivo di Bercy il ritiro di Federer aveva agevolato forse un po’ troppo Monfils, che al posto di un centotre volte campione ATP si è trovato ad affrontare Albot (e per poco non ci ha perso). Certo se Monfils avesse battuto quest’ottimo Shapovalov non saremmo stati autorizzati a recriminare, nulla è stato fatto in deroga ai regolamenti, ma a posteriori possiamo riscontrare una certa giustizia complessiva dei fatti.
IL 2019 DI MATTEO – Iniziato dieci mesi fa alla posizione 54 – e a marzo era ancora 57 – si concluderà quantomeno alla posizione 8 a meno che Berrettini riesca a trasformare questa grande opportunità in qualcosa di ancora più grande. L’ingresso in top 50 – sebbene fugace – è arrivato a febbraio dopo la semifinale di Sofia (condita dalla vittoria su Khachanov), quello definitivo dopo il titolo di Budapest nel cui albo d’oro Berrettini ha iscritto il suo nome appena sotto quello di Cecchinato, campione nel 2018. Dopo la finale di Monaco, persa contro Garin, e lo scalpo di Zverev ottenuto davanti al pubblico di Roma, Berrettini è incappato in una sconfitta forse evitabile contro Ruud al Roland Garros. Dove però Matteo ha costruito le premesse per la sua ascesa repentina è stato sull’erba, come aveva quasi preconizzato coach Santopadre in un’intervista rilasciata a margine del successo di Budapest. Il titolo di Stoccarda e soprattutto gli ottavi di finale giocati a Wimbledon hanno proiettato Berrettini in top 20, aumentando in modo cospicuo il chiacchiericcio attorno al suo nome e scomodando paragoni con tennisti italiani del presente e del futuro.
Forse, però, la più grande dimostrazione di forza di Matteo è stata la reazione alla netta sconfitta subita da Federer nel tempio di Wimbledon – quella che il Direttore aveva clamorosamente azzeccato… al contrario, ricordate? – che avrebbe lecitamente potuto spezzargli le gambe. Al (presunto) contraccolpo di quella sconfitta si è aggiunto l’infortunio alla caviglia destra che gli ha sostanzialmente impedito di competere degnamente a Cincinnati (sconfitto al primo turno da Londero) e del tutto alla Rogers Cup. Invece Matteo ha fatto saltare il banco a New York, fermandosi solo al cospetto di Nadal in semifinale, e si è ripetuto a Shanghai e Vienna conquistando così l’ottavo posto nella Race to London, difeso maluccio a Bercy a causa di un ritrovato Tsonga che gli ha imposto l’alt all’esordio. A inserire l’ultimo tassello nel puzzle vincente ci ha però pensato Shapovalov, come vi abbiamo già raccontato.
Nato a Roma il 12 aprile 1996, Matteo Berrettini sarà quindi il terzo italiano della storia a disputare il Master di singolare, dopo il già citato Barazzutti e Panatta nel 1975. Potrebbe però diventare il primo a vincere una partita, dopo l’unico successo in doppio di Fognini e Bolelli nel 2015 (sconfissero Bopanna e Mergea); Corrado e Adriano rimediarono infatti tre sconfitte a testa rispettivamente a New York (si giocò nel gennaio 1979, sconfitte contro Dibbs, Ramirez e Gottfried) e Stoccolma (Orantes, Nastase e Ashe). Per attitudine alla superficie e stato di forma non è un volo pindarico immaginare che Matteo possa fare meglio di loro. Ed è già una gigantesca vittoria.
NOTA DI UBALDO – Rispetto a Barazzutti per la verità Matteo ha già fatto meglio. Infatti Corrado entrò fra i Maestri dalla porta di servizio. Bjorn Borg rinunciò a partecipare, furioso contro la regola ATP che lo voleva obbligare a giocare un minimo di 20 tornei, e quindi Barazzutti che era nono si ritrovò fra gli otto. Invece Panatta il suo posto fra gli otto lo aveva conquistato con un finale di stagione fantastico, specie l’ottobre, finali a Madrid e Barcellona (perse con Kodes e Borg) ma vincendo a Stoccolma in finale su Connors e raggiungendo poi la finale di Buenos Aires persa con Vilas. Sembrava che l’americano Eddie Dibbs, che lo inseguiva a soli 23 punti, potesse scavalcarlo, dopo che a Johannesburg Adriano aveva perso anzitempo dal Rhodesiano Andrew Pattinson, ma invece Dibbs fu battuto a sorpreso dal grande doppista con il… Berrettino Bianco – le maiuscole sono volute in tempi di Berretti e Berrettini! – Frew McMillan e così Adriano rientrò fra gli otto a Stoccolma, su quello stesso campo, la Kungliga Halle, dove aveva vinto due mesi prima.
Si giocava sul Bolltex, una superficie velocissima. Io c’ero, fu il mio primo Masters seguito da giornalista. Infatti nel ‘74 si era giocato sull’erba di Kooyong e aveva trionfato Vilas, ma era troppo lontano e dispendioso arrivarci. Il Masters di Stoccolma – al quale prese parte anche il nono in classifica Harold Solomon perché Connors e Grand Prix (allora gestiti dall’ITF) erano ai ferri corti per l’esclusione di Connors dal Roland Garros a seguito della sua partecipazione al Team Tennis— fu caratterizzato dalle provocazioni di Nastase nei confronti di Ashe. E non tanto per le battute irridenti – lo chiamava “Negroni” come un drink dell’epoca – quanto per le continue perdite di tempo. Ilie si lamentava per la bassa qualità delle luci e lo faceva a suo modo, oggi ancor più inaccettabile di allora: “Quando Negroni viene a rete è cosi scuro che non lo vedo!”.
A un certo punto Ashe prese le racchette e se ne uscì dal campo, ribadisco più per le perdite di tempo che l’arbitro tollerava piuttosto che per le offese e le gag irriverenti. Così sulle prime perse il match. Idem Nastase cui anche fu poi dato match perso. In un secondo tempo la vittoria fu assegnata a Ashe e non solo perché era giusto, ma perché tutti i calcoli su partite, set e games persi venivano alterati da un match perso da entrambi i giocatori. Si parlò più di quella vicenda che delle sfortunate partite di Panatta che, a dispetto di un girone di ferro – ben più forte di quello che sarebbe toccato quattro anni dopo a Barazzutti – ebbe le sue chances in più di un match, ma non riuscì a concretizzarle.
NOTA BIS – Questo di Londra sarà il primo Masters tutto europeo di sempre.