Nell’anno in cui abbandona la chioma non più originale a favore di un taglio corto sotto la bandana, Andre Agassi diventa per la prima volta numero 1 del mondo, dopo cinque mesi passati in seconda posizione. È il 10 aprile 1995. Nel marzo precedente, il Kid di Las Vegas aveva perso la finale di Indian Wells contro Pete Sampras, per poi prendersi la rivincita in quella di Miami. Passano quattordici giorni e inizia il regno di Andre I che durerà per trenta settimane. Tornerà in vetta nel 1996, poi per un anno dal settembre del 1999 e di nuovo nel 2003 a trentatré anni, 17 stagioni dopo quella del passaggio al professionismo. 101 settimane complessive come il migliore di tutti.
Ancora sedicenne, all’inizio del 1987 Agassi sfonda il muro della top 100 e, neanche due anni dopo, ci sono solo Wilander e Lendl davanti a lui nel ranking. Il mondo intero parla di quel ribelle statunitense, capelli lunghi e pantaloncini jeans, mentre non solo i suoi avversari, ma tutti gli appassionati ormai hanno imparato a conoscere la sua incredibile abilità nel colpire la palla in anticipo – un salto epocale nel tennis.
Rapidità dei piedi, appoggi perfetti, coordinazione occhio-mano a livelli da supereroe dei fumetti, Andre sventaglia dritti micidiali, ma è il rovescio l’arma in più che gli permette di essere aggressivo da entrambi i lati: il colpo è solido, capace di variare l’intensità del topspin nella ricerca della penetrazione o degli angoli, efficace anche nelle situazioni finora di difficoltà per i bimani. Una vera novità, quel fondamentale su cui Agassi si prepara avvolgendosi a spirale per poi esplodere come una molla. E si parla tantissimo del suo coach, Nick Bollettieri, lo stesso di quel Jimmy Arias che a colpi di un dritto che ha fatto scuola si era fatto strada fino al quinto posto della classifica durante gli ultimi mesi da teenager nel 1984, ma senza più riuscire a confermarsi a quei livelli.
Sarà ben altra rispetto a Jimmy la carriera di Agassi, il Flipper di Giampiero Galeazzi. Agassi che cercava invano di battere Ivan Lendl facendo a pallate. Quel cecoslovacco che, dopo averlo battuto in finale a Stratton Mountain nel 1987, lo aveva definito “un taglio di capelli e un dritto”. Il favoritissimo Agassi che perde sciupando match point contro Alberto Mancini la finale in una Roma – era il 1989 – appena scopertasi gabymaniaca (da Gabriella Sabatini, vincitrice quell’anno al Foro) e quindi anche un po’ argentina. Agassi ferito che tornerà agli Internazionali solo due volte nei nove anni successivi, la prima nel 1991 uscendo tra i fischi dopo la sconfitta al primo turno contro il n. 64 Eric Jelen. Agassi che evita i Championships dal 1988 al 1990, Agassi e il suoi colori ultra-vivaci che non si sottomettono al dress code, Agassi che non sa giocare sull’erba, Agassi che finalmente ci va “ma come si vestirà?”. Agassi bianco come neanche la pubblicità di un detersivo. O di un dentifricio. Agassi che sui sacri prati trionfa nel 1992.
Andre dai “ratti da fango” di Bollettieri all’arrivo di Brad Gilbert. Andre che all’inizio di quel 1995 batte Sampras in finale a Melbourne, per quella che resterà la sua unica vittoria nell’ultimo atto di uno Slam contro Pistol Pete (1-4 a fine carriera). Andre che diventa numero 1 con un record finoa quel punto della stagione di 26 vittorie su 28 match. Nell’estate nordamericana di quel 1995 vince ventisei incontri di fila, ma perde la finale dello US Open, quella che gli farà scrivere: “Non importa quanto vinci, se non sei l’ultimo a vincere sei un perdente. E alla fine perdo sempre, perché c’è sempre Pete”. Sampras che passa a condurre le loro sfide per 9-8.
Ci sarà tempo per cadute, metanfetamine, bugie, rinascite poderose, Steffi Graf, la (auto)biografia – romanzo bellissimo di odio-odio per il tennis che vale anche come simpatica scusa per certi comportamenti – e il Career Golden Slam. Ci sarà tempo per diventare il numero 1 più vecchio di sempre fino a che toccherà a Federer. Per adesso, Andre Agassi festeggia i venticinque anni dalla sua prima volta sul tetto del mondo.