A causa di un aggiornamento tardivo delle classifiche, Jimmy Connors diventa numero 1 del mondo solo il 29 luglio 1974, ovvero ben ventitrè giorni dopo aver battuto il trentanovenne Ken Rosewall nella finale di Wimbledon. A quel tempo funzionava così, gli strumenti a disposizione dell’ATP per elaborare l’enorme mole di dati che gli pervenivano giornalmente erano limitati e ancora in fase di perfezionamento e quindi ci si doveva accontentare di cadenze praticamente mensili, anziché settimanali come avviene oggi. Poco male, non sono alcune settimane in più o in meno a modificare lo stato delle cose. John Newcombe, nel suo breve regno, non era riuscito a confermare gli ottimi risultati che l’avevano portato a quel livello mentre la marcia del ragazzo di Belleville, iniziata a Melbourne il primo gennaio con la vittoria agli Australian Open, era pressoché inarrestabile.
Le faide tra le diverse sigle del tennis continuavano, anche nel ’74, a creare situazioni imbarazzanti e discutibili, come quella che aveva impedito a Connors – reo di aver giocato alcuni incontri del World Team Tennis, una lega statunitense a squadre in cui sia la federazione internazionale che il WCT vedevano un potenziale rivale – di partecipare al Roland Garros. Sul momento, la forzata rinuncia a Parigi non parve così importante ma a posteriori lo diventò e non poco. Perché, dopo Melbourne e Wimbledon, l’allievo di mamma Gloria e nonna Bertha farà suoi quell’anno anche gli US Open (di nuovo imponendosi a Rosewall in finale) e quindi l’eventualità di diventare il terzo uomo – dopo Budge e Laver – a centrare il Grand Slam si dimostrò tutt’altro che remota.
Fin dalle sue prime apparizioni nel grande circo del tennis, Jimbo si distingue per la scarsa empatia che evidenzia nei confronti di tutto ciò che lo circonda, dalle istituzioni ai colleghi e talvolta fino agli spettatori. È quello che si definisce un bad boy, un bullo, tirato su così da due donne ambiziose e un allenatore, Pancho Segura, che propaga la sua filosofia di quando era giocatore a quel ragazzo mancino che perfezionerà uno stile del tutto originale. Si fa un torto a Connors – e agli altri interpreti del colpo prima di lui – quando si sostiene che il rovescio a due mani l’ha inventato Borg. Lo svedese ha sdoganato il suo rovescio bimane, avviando in patria e altrove una miriade di tentativi di imitazione tutti peraltro falliti, ma Jimmy lo giocava da prima, sia pur in modo del tutto diverso. I colpi di Connors sono perlopiù piatti, talvolta eseguiti saltando, ma il vero segreto è l’introduzione del concetto di controffensiva in risposta, utile a bagnare le polveri dei tanti attaccanti che ancora popolano il circuito. Vero, il servizio non è all’altezza del resto e il dritto non sempre affidabile ma, nel complesso, il ventunenne dell’Illinois è in grado di sprigionare un’energia e un vigore agonistico sconosciuto ai più.
Alla prima uscita da re del mondo, Connors affida alla sua inconfondibile Wilson T2000 il compito di insinuare il dubbio sulla presunta legittimità del futuro rimpianto. A Indianapolis, nei campionati americani su terra battuta, il numero 1 del mondo si aggiudica il titolo battendo Orantes in semifinale e Borg in finale, ovvero proprio i finalisti del Roland Garros a cui lui ha dovuto rinunciare. A buon intenditor, poche parole. Comunque, rimpianti a parte, Connors chiude la stagione con appena quattro sconfitte, due delle quali maturate da quando è leader del ranking. Il primo ad ottenere il suo scalpo è un ottimo doppista spagnolo che però ha disputato – perdendola – l’ultima finale tra amatori agli Australian Open: Juan Gisbert. L’iberico lo ferma al terzo turno di Montreal mentre, prima di chiudere la stagione, Jimbo perderà anche contro il neozelandese Onny Parun sul sintetico di San Francisco.
Dalla vittoria con Pat Dupre, al primo turno di Indianapolis 1974, a quella con Stan Smith (terzo turno di Boston 1977), Connors sorvolerà la sua prima lunga fase da padrone delle ferriere disputando un totale di 287 incontri e vincendone più del 90%. Tuttavia, a una stagione da dominatore assoluto ne segue una ben più contrastata, che ribalta del tutto gli esiti di quella precedente. Saltato di nuovo, stavolta per scelta, il Roland Garros, Jimbo perde tutte e tre le finali Slam in cui difendeva il titolo. A Melbourne a batterlo è il n.2 Newcombe, a Wimbledon si arrende alla sagacia tattica di Ashe mentre sulla terra verde di Forest Hills, dopo aver regolato Borg in semifinale, viene distrutto da Manuel Orantes in tre rapidi set. Nato da una famiglia di umili origini a Granada, “Manolito” iniziò a far parlare di sé nel 1968 quando sconfisse nella finale di Madrid l’altro Manolo, il ben più celebre Santana.
Mancino dotato di un tocco inusuale, abbiamo già ricordato come Orantes fosse stato finalista a Parigi l’anno precedente ma nel Queens la vera impresa la compirà in semifinale, recuperando da 1-2 e 0-5 nel quarto set e annullando ben cinque match-points a Vilas. Nel giorno più importante della sua carriera, ad assistere al suo capolavoro ci sono 15.669 spettatori pigiati come sardine sugli spalti del West Side Tennis Club e alla fine la sua tattica (“Dargli palle senza peso perché sapevo che a spingere avrebbe avuto difficoltà, ma sono stato fortunato che abbia sbagliato così tanto” dirà in conferenza stampa) risulta vincente, anche grazie ai tanti lob chirurgici con cui ha neutralizzato gli attacchi del campione in carica.
Dal canto suo, il numero 1 ammette con onestà che “non pensavo potesse giocare a questo livello e invece l’ha fatto; non mi resta che complimentarmi con Manolo. Quanto alla sua possibile stanchezza, tante volte succede così: stava ancora giocando dalla sera prima e non ha avuto tempo per fare nulla, nemmeno per sentirsi stanco”.
A pagina 2, la sconfitta contro Panatta e l’avvicendamento con Borg