Per i tennisti contemporanei questo periodo di isolamento comporta anche un minor contatto con la stampa e di conseguenza, com’è capitato ieri tra Djokovic e Murray, ormai sono loro a intervistarsi vicendevolmente. I giocatori di lunga data invece ricorrono ancora ai media tradizionali e quindi, dopo l’intervista a Panatta di qualche settimana fa, adesso tocca all’altro numero 1 della storia del nostro tennis: Nicola Pietrangeli, intervistato dal Corriere della Sera. Il rimpianto più grande che ha al momento il due volte campione del Roland Garros, riguarda proprio il torneo parigino. “E pensare che avevo già ricevuto una lettera dall’organizzazione, avrei premiato il vincitore” per commemorare i 60 anni dal suo secondo successo. “Spero di poter andare lo stesso, magari a settembre quando finirà questo strazio”.
Rapidamente ha anche affrontato il tema della sua momentanea interruzione come collaboratore della Federazione Italiana Tennis, confermando che “il presidente Binaghi me l’aveva anticipata, spiegando che sarebbe stata una cosa momentanea. Una decisione che non piace a nessuno ma inevitabile. Certo, pensavo valesse per tutte le federazioni e non solo per la FIT“. Ricordiamo che la sua sospensione era scattata in concomitanza con la messa in cassa integrazione dei dipendenti FIT, i quali prontamente hanno indetto un ricorso ancora in atto.
Il passatempo preferito dell’86enne Pietrangeli durante la quarantena consiste nel “guardare tutte le serie tv su Netflix”, ma ovviamente i pensieri vanno sempre alle attività di una volta. “Il circola, la famiglia, la normalità. Cerco di ricordare la mia vita per non annoiarmi, e penso che chi non ha rimpianti è un imbecille. Ripenso agli sbagli fatti, a volte dando una capocciata al muro. Il rimpianto sportivo è quello di non aver vinto Wimbledon; e poi l’aver lasciato il Roland Garros per qualche giorno per assistere alla nascita di mio figlio. Il desiderio di tornare a casa era incredibile, ma mi giocai la possibilità di vincere”. Poi in un periodo del genere si sente la mancanza anche dei tornei seguiti dal vivo: “Montecarlo, Roma e Parigi sono appuntamenti fissi. I miei amici di New York sono tutti morti…”.
E a proposito degli Internazionali Pietrangeli non la vede come il presidente Binaghi: “Preferirei saltare un anno che giocare lontano da Roma“. I motivi di questa scelta però, per uno che nella capitale ha trionfato nel 1957 e 1961 e al quale è stato intitolato un campo che “è imbarazzante per quanto è bello”, non sono di tipo sentimentale bensì logistico. “Leggo di Milano e Torino come alternative anche indoor, ma per portare un torneo con così tanti giocatori e giocatrici da un’altra parte servirebbe una struttura con dieci, dodici campi“. E l’alternativa a porte chiuso non la vede proprio di buon occhio: “Giocare un torneo, come gli US Open, a porte chiuse sarebbe il segnale che si va soltanto alla ricerca dei soldi“. Anche se in un momento del genere c’è bisogno soprattutto di quelli.
Infine l’ex numero 3 del mondo conclude l’intervista prima con una riflessione sul tennis italiano e il suo momento “eccezionale. Fognini fa paura a tutti, Berrettini è diventato un giocatore vero, Sinner potenzialmente è da primi dieci al mondo. E faccio un in bocca al lupo a Gaudenzi che non poteva diventare presidente ATP in un momento più tosto”. E poi si lascia andare anche lui in quei confronti generazionali che spesso sono dettati più dal gusto personale che dall’oggettività; ma una persona della sua esperienza, anche su questo tema riesce a dare un spunto di riflessione. “Sicuramente Federer, ma anche Sampras (lo avrei visto bene nella mia epoca). Ma questo sport non è stato inventato dieci anni fa. Okay non c’erano le classifiche computerizzate ma gente come Pancho Gonzalez e Lew Hoad era forse più scarsa?“.