Con questo articolo, si conclude la nostra raccolta dedicata ai re e alle regine del Roland Garros.
Secondo un manuale apocrifo in tema di tattica, sul quaranta pari sarebbe buona creanza colpire sodo ampiamente all’interno delle righe, tanto per sortire dalla faccenda con fare più da lepre che non da segugio. Ma, come dice l’adagio, non è sempre oro colato! Così, fedele al suggerimento, Robin Soderling sembrò tradire una certa sorpresa quando un arrischiato slice a uscire l’aveva spinto nei dintorni del pubblico laterale prima di essere chiamato all’angolo opposto per riparare a un maledetto diagonale che se ne infischiava delle buone creanze. Una volta sulla palla, aveva organizzato un passante di rovescio senza troppe pretese lasciando che il satanasso oltre la rete castigasse il tiraccio con una volée vincente di diritto.
Una manovra che aveva portato il punteggio sulla punta dell’iceberg per via di un match point che valeva il Roland Garros 2009. Un punto risolutore che di lì a poco si sarebbe consumato nel fragoroso silenzio dello Chatrier tramite il rito secolare del servizio. Una… due… tre, per otto volte il manto rosso più famoso al mondo restituiva la palla a una mano sinistra nervosa ma non troppo. La stessa che subito dopo si era mossa all’insù liberando la sfera nel cielo sovrastante mentre la destra, armata di racchetta, andava a colpire con violenza destinazione il diritto dello svedese. Per uno strano influsso astrale, quel colpo, che lungo tutto il torneo aveva fatto sfracelli, non era in grado di predisporre una qualsivoglia replica spedendo malamente l’oggetto gommoso tra le ingloriose maglie della rete.
Un batter di ciglia, e l’esplosione del pubblico deflagrava frattanto che un tremante Roger Federer, piegato sulle ginocchia, liberava – nel bel mezzo del grande centrale – un urlo degno di Munch, rivelato soltanto da un marcato labiale che lasciava il sonoro al frastuono generale. Un’apoteosi che rapiva lo svizzero verso uno stato di beata sospensione, uno di quegli spazi eterei in cui il presente si espande all’infinito e il tempo non ha più valore. Una bolla nella quale un Federer lacrimante andava sprigionando sensazioni a briglia sciolta in un misto a mezza via tra gioia e orgoglio. Tutt’intorno l’infinità di volti non oscillava più da un lato all’altro al ritmo degli scambi, ma di colpo si posava su di lui indagando in quegli occhi un semestre alle spalle volato via tra una finale in Australia e qualche semi racimolata qua e là a Doha, Miami e Indian Wells. Un periodo che aveva fatto guardare a lui quasi come a un giocatore in forte crisi.
Dal lato opposto, Soderling muoveva lentamente un primo passo verso la stretta di mano, mentre, il vincitore, ancora estraneo a tutto, si attardava sulle immagini della sua campagna sulle sabbie rosse della vecchia Europa. Dall’uscita con Wawrinka al secondo turno di Montecarlo alla semifinale persa a Roma contro un Djokovic non era accaduto nulla di esaltante! Poi c’erano stati i 674 metri che dal livello del mare conducono a Madrid e la palla, come per incanto, aveva ripreso a viaggiare. In una Caja Magica semi-assolata li aveva messi tutti in fila riservandosi, nel match clou, la gratificazione di un duplice 6-4 rifilato a un frastornato Nadal. In un impulso di ritrovato amor proprio aveva fatto sfoggio di spiccate qualità adattive coniugandole alla grande voglia di riscatto maturata in cinque sconfitte di fila patite dall’iberico.
Ginocchi a terra e volto tra le mani, ora carpiva l’attimo per vagare tra le tappe di quei Campionati di Francia iniziati con i presagi di ostinati bookmaker che, a dispetto della fresca performance madrilena, assegnavano a Nadal un 70% di vittoria contro un misero 15% a lui riservato.
Un Roland Garros nel quale tutti inseguivano qualcosa: il maiorchino guardava al quinto trionfo consecutivo sulla terra di Francia e al sorpasso di Bjorn Borg fermo a quattro; Djokovic bramava un’attesa consacrazione dopo aver tenuto lo spagnolo sul crinale della semi a Madrid con tre match point tutti annullati ma letti con fiducia: “Mi manca poco” andava dicendo ai giornalisti, “… e posso batterlo proprio qui a Parigi”. Anche Murray, forte dei risultati a Indian Wells e Miami sentiva di poter dire la sua su una superficie diversa dal cemento. Tra sé e sé, Federer scorreva l’inebriante sogno di quel 14° Slam da vivere in compagnia di Pete Sampras. Infine c’erano i sogni dei tanti passati per il botteghino, migliaia di appassionati che avrebbero fatto carte false pur di veder replicata la finale delle ultime tre edizioni.
E pensiero dietro pensiero, si era lasciato andare ai fotogrammi di quel viaggio appena giunto in porto. In un caldo parigino di fine maggio, il turno d’esordio se n’era andato liscio come l’olio, mentre in quello successivo era incappato in due tie-break per domare un sorprendente Acasuso. Punto su punto era volato, quindi, agli ottavi per rischiare grosso contro un Haas particolarmente ispirato: due set sotto, era stato chiamato a salvare una palla break sul 3-4 del terzo con un diritto a sventaglio finito per spizzare la riga laterale. Fosse atterrata un unghia più in là, il tedesco avrebbe servito per il match e sarebbero stati guai. Nei quarti aveva respirato l’amore del pubblico sebbene oltre la rete ci fosse Gael Monfils, un gatto sornione da prendere comunque con le molle. “Parigi sembra avermi adottato” aveva detto subito dopo il match, “… e la gente vuole che io vinca questo torneo“.
In effetti, in quel Roland Garros anche il destino sembrò invaghirsi di lui. Lo aveva fatto con segnali tangibili in arrivo da un irriducibile Kohlschreiber che troncava negli ottavi le velleità di Djokovic e da un potente Fernando Gonzales che nei quarti aveva fatto altrettanto con quelle nutrite da Murray.
Un film nel quale, una volta in piedi, lo svizzero andava lentamente rievocando anche i tratti della terribile semifinale in cui era ricorso a geometrie inedite pur di evitare il diritto al tritolo di un Del Potro già sulla soglia del grande tennis. Due set a uno sotto, si era tirato fuori dalla buca destabilizzando il gigante di Tandill con smorzate di altissima fattura. L’aveva riportata per il rotto della cuffia chiudendo solo 6-4 al quinto.
Scorrevano i titoli di coda quando, infarinato di rossiccio, aveva mosso i primi passi verso l’uomo della provvidenza, quello che negli ottavi l’aveva fatta grossa fermando, a suon di randellate, nientemeno che Rafael Nadal! A Porte D’Auteuil, lo spagnolo non conosceva sconfitta: 29 vittorie su 29 incontri durante i quali aveva lasciato per strada la miseria di cinque set. Non bastasse, il confronto era stato segnato anche da uno smaccato appoggio rivolto dal pubblico al giovane svedese. Qualcosa che aveva stizzito il campione uscente: “Sono deluso”, avrebbe tuonato qualche giorno dopo da Manacor, “ho vinto quattro volte il torneo e l’altro giorno sono uscito dal campo senza lo straccio di un applauso. Anzi ho sentito pure qualche fischio. Accade solo in Francia”.
Chi l’avrebbe detto, deve aver pensato Federer deambulando senza fretta, che a interrompere il record di Rafa sarebbe stato un marcantonio di quasi due metri disceso dal freddo Gotaland, nel sud della Svezia, in un momento in cui il tennis da quelle parti navigava in completa bonaccia? Randellando il diritto come un vichingo con ascia in mano, l’omone di Tibro aveva spinto lo spagnolo alla difesa punendolo a tratti con incursioni a rete coronate da successo. L’avanzata del nordico si era infranta solo sui tre set della finale appena andata in onda, durante i quali i colpi di Federer avevano sprizzato il peso della sapienza e dei record macinati. Troppo, anche per un outsider con i fiocchi che tornava sotto i riflettori dopo un periodo luci e ombre.
Ora era lì, poggiato a una rete di metà campo in attesa che il vincitore coprisse i metri mancanti al saluto di rito. Quel Federer dagli occhi lucidi che aveva messo ordine nel paradiso del tennis divenendo l’alfiere, insieme a Sampras, di 14 major sfoggiati in bacheca. “Sei il più forte della storia”, dirà lo scandinavo durante la stretta di mano, “… meriti il titolo”. Tornato in sé, Roger Federer ignorava quanto la vittoria parigina fosse infarcita di record bislacchi amati dai pennaioli accaniti di statistica. Di certo sapeva quanto quel Roland Garros 2009 fosse una quadratura mentale più che tecnica, una risposta alle tre finali perse e un segnale univoco a chi in quel semestre, l’aveva spacciato quasi per un ex. Per lui, avvezzo al verde in Church Road, la gioia più grande passava, quella volta, per un riscatto color mattone consumato sulle faticose sabbie in Bois de Boulogne.