Non muoiono dalla voglia di giocare, ormai è chiaro. Almeno i big. Quelli che però tirano il carro del circuito, soprattutto nel momento in cui c’è da fare i conti con i danni (e il tentativo di limitarli) a livello economico. Se giocare uno Slam sembra al momento già un’impresa, farlo senza Djokovic e/o Nadal – Federer si è già chiamato fuori – rischierebbe di diventare un investimento a perdere. Il serbo ha parlato alla TV di Stato di Belgrado (RTS) definendo “estreme e non sostenibili” le restrizioni ipotizzate per lo Slam di New York, proiettando così il suo rientro nel circuito a ridosso del Roland Garros. “Molti dei giocatori con cui ho parlato sono negativi sull’ipotesi di andare a giocare negli Stati Uniti. Allo stato attuale delle cose, è molto probabile che la mia stagione riprenda sulla terra all’inizio di settembre“.
IL FRONTE – Ad ancorare Djokovic sulla difensiva, le congetture logistiche su Flushing Meadows filtrate in attesa della decisione definitiva: albergo blindato vicino all’aeroporto divieto di andare a Manhattan, test continui sui partecipanti e solo un accompagnatore al seguito di giocatori abituati a viaggiare per il mondo con un abbondante staff. Già Federer aveva manifestato il suo disappunto sul molto probabile scenario delle porte chiuse, ma il malumore di Djokovic sembra andare oltre. Toccando gli snodi organizzativi cruciali intorno ai quali provare a costruire una ripartenza dall’inizio di agosto (si spera). Anche Nadal, forse con toni più concilianti, non era sembrato entusiasta dell’idea di riavviare il carrozzone a partire da New York. “Se dovessi andarci oggi direi di no – la sua versione da Mallorca -, il nostro sport non è come il calcio o altre discipline che si possono giocare in un solo Paese, nel tennis si mischiano persone che provengono da tutto il mondo, le complicazioni sono tante”. A margine, un’apertura per le prossime settimane, indicizzata al miglioramento delle condizioni sanitarie a livello globale.
GLI ARGOMENTI – Prese di posizione legittime, ma delicate in un momento in cui il tennis vive anche di questioni “sindacali”. L’importanza (soprattutto economica) di tornare a giocare uno Slam per la gran parte dei giocatori e dell’indotto è tale da poter accettare di buon grado alcuni sacrifici. Dan Evans, come da sua abitudine, è andato dritto al punto: “Gli unici ostacoli sono quelli che derivano dalla tutela della salute di tutti i professionisti che lavoreranno a Flushing Meadows – ha puntualizzato il britannico -, dover andare a New York soltanto con il coach non mi sembra un buon motivo per non disputare il torneo“. Spaccato anche il circuito femminile: tra le varie posizioni, segnaliamo quella della numero uno WTA Ashleigh Barty, che attende lumi dalla WTA per esprimere un parere compiuto sulla sua partecipazione alla campagna americana. “Sempre meglio giocare che stare fermi” è invece il messaggio lanciato da Karolina Pliskova che ha anche aggiunto: “Giocare senza pubblico per noi ragazze non sarebbe un’esperienza del tutto inedita, ci siamo passate tutte“.
GLI INTERESSI – La partita a questo punto si sposta sul campo della strategia politica. Djokovic e Nadal – e il loro punto di vista, senza Federer, pesa più di quello di altri – non si strapperebbero i capelli se si ripartisse direttamente dalla stagione europea su terra (obiettivo prioritario dello spagnolo, che potrebbe così pensare di far tappa a Roma e Madrid prima di Parigi). Gli risulterebbe più comodo, con una fisiologica riduzione delle insidie per il livello di competitività sul quale nessuno vuole mollare di un centimetro (lo US Open senza l’intero staff al seguito, a quei livelli di consolidata e continua ricerca della perfezione, potrebbe essere visto come un pericolo). Ecco perché, almeno a livello mediatico, si può capire il senso della scossa: provare a trascinare il tormentato finale di stagione sulla strada più gradita. Nel momento in cui mancano certezze normative e di calendario, chi ha potere di indirizzo cerca di farlo valere.