Da ragazzino antipatico ad amico di una vita (Paolo Bertolucci, Gazzetta dello Sport)
Ci siamo conosciuti tanti anni fa a Cesenatico. Io avevo 11 anni e lui 12. Ci siamo affrontati per la prima volta e devo dire che non era particolarmente simpatico. Io venivo da un piccolo paese, Forte dei Marmi, lui romano dei Parioli e il suo nome già circolava da tempo nell’ambiente tennistico. Poi abbiamo iniziato a frequentarci e la Federazione ci ha convocato a Formia con Mario Belardinelli che ci ha messo in camera insieme. Al mattino andavamo a scuola e il pomeriggio ci allenavamo. Sei anni in college ci hanno fatto crescere ed è maturata una bella amicizia. Da compagni di doppio a testimoni di nozze dei rispettivi matrimoni. Questo rapporto particolare è poi proseguito fuori dal campo anche negli anni seguenti. Adriano è sempre stato una persona molto generosa, che si annoiava nella ripetizione. Gli piaceva sempre inventarsi qualcosa, era un’anima in pena. Questo suo modo di intendere la vita lo esprimeva anche sul campo. Da ragazzino antipatico ad amico di una vita mai due punti alla stessa maniera, si inventava sempre qualcosa di diverso. Perché doveva creare, detestava la monotonia. Lo si vedeva anche fuori nella vita. Motonautica, paracadutismo. Ha fatto di tutto. Ora ci sentiamo meno, ogni tanto lo vedo sulle Dolomiti ma non scia più, passeggia come le persone di una certa età… Ultimamente gli ho anche detto: «Caro Panatta – lo chiamo sempre così -, passa il tempo, vedo che ti annoi». […] Panatta è un romano con un cuore d’oro che quando ha voluto esprimere il proprio talento ha dimostrato di essere un grande del tennis.
Berrettini: “Il primo coach? Mia nonna” (Giorgio Burreddu, Corriere dello Sport)
La fantasia l’ha imparata da nonna Lucia, che quando era piccolo gli ripeteva «leggi tanto e scrivi tanto», e allora Matteo Berrettini chiudeva gli occhi, faceva sì con la testa e quel consiglio non se l’è mai più scordato. Poi alla fantasia ha unito la tecnica, il talento, la sfacciataggine, il coraggio, ed è venuto fuori quel gran pezzo di tennis italiano che è. «Sto bene, mi sto anche divertendo. Mi mancavano l’agonismo, l’adrenalina, l’emozione: sto ritrovando anche tutto il resto. Stavo giocando un’altra esibizione, ma questa si avvicina al tennis normale». Scende tra le strade a esse di Kitzbuhel, dove Matteo è andato a disputare il torneo dell’altro ragazzo prodigio del tennis, Dominic Thiem. Ma il suo sguardo è più lungo, arriva fino a settembre, a quegli US Open che un anno fa servirono per farci innamorare di lui. «Ti cambia la vita in alcuni aspetti, ma non cambia il rapporto con le persone che ci sono sempre state. Una persona si può innamorare di me e del mio tennis, però non altera il mio modo di interfacciarmi ai miei familiari. La differenza è che loro sono ancora più fieri di me. Il successo è una cosa a parte, uno lo gestisce come vuole. lo però non sono un vip, non mi piace vivere nella notorietà». […] Giocherà gli US Open? «Ci sono troppi punti interrogativi ancora, la situazione è un po’ complessa, bisogna sapere alcune cose: il viaggio d’andata, il ritorno, cosa succederà se uno dovesse risultare positivo in America, se può tornare o se non può. Quindi decideremo una volta sapute tutte queste cose». Ma la pancia che le dice? «E’ ovvio che mi piacerebbe, mi piacerebbe tornare a competere a livelli di quel tipo. Anche se sarebbe diverso, senza pubblico». Come vive i tamponi, i continui controlli: sono un peso o si sente più sicuro? «Ormai siamo abituati, quindi non è un peso. Credo sia necessario per la sicurezza di tutti. E’ giusto che si faccia, se questo serve a tenerci lontano dai problemi. Finché non arriva il vaccino questa è l’unica maniera per stare sicuri». influirà sul tennis? «Sarà decisamente diverso. Il modo di giocare no, ma rapportarsi con gli altri sì. Le prime settimane di tutti i tornei saranno strane. La maggior parte dei tennisti non gioca da tempo, non ha l’adrenalina, la tensione. Di esibizioni ce ne sono tante, ma è diverso. E lo è anche il calendario: dal cemento alla terra in cosa pochi giorni». […] E’ la nonna che le ha dato i consigli giusti. «Le mie prof alle medie dicevano che scrivevo male, quella del liceo che scrivevo bene. Nonna fu la prima a dirmi che dovevo continuare a farlo. Adesso con il mio mental coach insistiamo su questa cosa». Ci vuole costanza. «Di indole non sono pigro, ma per alcune cose sì. Con la scrittura divento pigro se non mi sento ispirato. Ma la coltivo parecchio, il mio mental coach dice che riesco a mettere in parole quello che sento e che provo. Mi è utile”. […] Cosa le manca di più della vita di prima? «La libertà di fare quello che vuoi senza dover pensare troppo, senza aspettare notizie dagli organi competenti». Ha scoperto qualcosa di sé nel lungo periodo di stop, qualcosa che non sapeva di avere? «Mi sono accorto di quanto la competizione e il tennis fossero una parte integrante della mia vita quotidiana. Mi è mancata l’adrenalina, la sfida, il voler essere il migliore in tutto quello che faccio. Non ci pensavo. Pensavo di poter vivere in maniera più rilassata». Invece ha avuto crolli? «No, ma ho avuto dubbi rispetto a quello che stava succedendo, dubbio sul fatto che non si potesse ricominciare. Se non si può viaggiare, mi dicevo, come si fa a fare la vita che faccio». E quindi non può esserci un tennis senza essere nel frullatore? «Per me no, ma io mi ci sono ritrovato. Magari Federer è più abituato, il suo frullatore frulla un po’ meno. Il mio però va al massimo. E’ la vita che facciamo».