Nel tennis, gli Slam sono le uniche entità dotate della potenza di fuoco necessaria a fronteggiare un evento potenzialmente distruttivo come la pandemia. Andando in ordine, i Major che hanno dovuto affrontare la desolazione delle macerie lasciate dalla pandemia di COVID-19 hanno reagito così:
- Il Roland Garros ha cancellato le date originarie, temporeggiato un po’, poi ha tentato (con successo) un atto di forza per riprogrammarsi in autunno, di fatto ‘creando’ dal nulla uno swing sulla terra battuta. Freddo, pubblico ridotto, incassi ridotti, montepremi ridotto di oltre 4 milioni ma missione portata a termine
- Wimbledon ha approfittato dell’assicurazione contro la pandemia e ha dato appuntamento al 2021, cancellando l’edizione di quest’anno; secondo i rumors, il torneo ha ricevuto un risarcimento superiore ai 100 milioni di dollari (a fronte di una revenue che ormai raggiunge i 300 milioni, quando il torneo si gioca; ma in quel caso ci sono anche molte spese)
- Lo US Open aveva il compito più difficile, tracciare la strada per chi sarebbe venuto dopo. Lo ha fatto egregiamente, organizzando una maxi-bolla per la disputa del ‘1000’ di Cincinnati e dello stesso US Open a Flushing Meadows. Per farlo, ha dovuto attingere ai 155 milioni di ‘risparmi’ accumulati negli anni dalla USTA; le stime dicono che l’incasso dell’edizione 2020, senza pubblico, ha subito una contrazione del 50% rispetto al 2019 (oltre 150 milioni in meno)
L’Australian Open, che l’aveva scampata per un pelo nel 2020 (pur dovendo affrontare il problema degli incendi), non ha potuto evitare l’impatto per l’edizione 2021. Forse con un pizzico ritardo sulla tabella di marcia, e di fatto scombinando i piani di tutti i tornei di gennaio e febbraio, ha deciso di posticipare l’evento che inizierà l’8 febbraio – e sarà il primo Slam della storia le cui qualificazioni si svolgeranno in un paese diverso, un mese prima. Sarà più semplice fare i conti quando si conoscerà la quantità di pubblico ammessa a Melbourne Park, ma è difficile sbagliare affermando che il prossimo Australian Open sarà il più ‘povero’ degli ultimi anni.
Lo stesso Craig Tiley ha ammesso che i costi per mettere in piedi l’imponente macchina dei protocolli di sicurezza (la voce ‘biosecurity costs‘ citata da ‘The Age‘) si aggirano attorno ai 33 milioni, ma c’è chi ipotizza che supereranno quota 40. E se nelle casse della USTA c’erano oltre 150 milioni prima di organizzare l’edizione 2020, in quelle di Tennis Australia sembra esserci un surplus inferiore, di circa 80 milioni, a cui Tiley e soci dovranno – con ogni probabilità – attingere. Un po’ di aiuti arriveranno dal governo dello stato della Victoria, che però ha già messo le mani avanti: vi aiutiamo, ma domani ci aspettiamo qualcosa in cambio.
Proprio come Wimbledon, che con la federazione britannica ha un accordo particolare – l’utilizzo dei 17 ettari dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club fino al 2053 in cambio del 90% del surplus generato annualmente dal torneo – anche Tennis Australia non ‘possiede’ i campi in cui si gioca lo Slam, ma deve pagare una specie di affitto all’autorità statale che ne gestisce la proprietà (Melbourne and Olympic Parks Trust). In base al contratto di locazione in essere, sembra che il canone annuale si aggiri attorno ai 2 milioni, anche se le cifre del bilancio 2019 raccontano un esborso complessivo superiore ai 3 milioni per le spese di ‘operating leases‘, per garantirsi l’utilizzo (ma non il possesso) delle strutture che ospitano i tornei sotto l’egida di Tennis Australia.
Dai giornali australiani trapela la prospettiva di uno sconto sull’affitto concesso ai vari ‘inquilini’ di Melbourne Park da parte dell’autorità governativa, ma la spada di Damocle dei 40 milioni necessari a mettere in sicurezza il torneo costringerà Tennis Australia a ‘esplorare le possibilità di aprire una linea di credito, o ottenere un prestito che ci consenta di mantenere il flusso di cassa e ci sostenga quando saranno esauriti i sussidi governativi‘, dice una nota della stessa federazione. Che si conclude con una previsione piuttosto dura: “Crediamo che per riprenderci dagli effetti della pandemia ci sarà bisogno di un periodo lungo fino a cinque anni“.
Tiriamo le somme. Tennis Australia riceverà un piccolo aiuto dal governo della Victoria, un piccolo sconto sul canone d’affitto dei campi e il montepremi da erogare sarà un po’ ridotto (non ci sono ancora cifre ufficiali), ma diverse altre voci di spesa cresceranno e altre di incasso si ridurranno: i già citati 40 milioni dei ‘biosecurity costs‘, si contrarranno gli incassi dei biglietti e Channel Nine, che detiene i diritti televisivi domestici del torneo, ha già alzato il ditino per ottenere uno sconto in virtù della diversa collocazione temporale (in Australia, le vacanze estive si concludono proprio a fine gennaio). Anche reclutare il personale e l’esercito di volontari che rende possibile lo svolgimento del torneo (ogni anno sono circa 20.000) sarà più complicato, a scuole già iniziate.
Insomma, lo Slam più povero del quadrifoglio tennistico (in ordine, US Open, Wimbledon e Roland Garros precedono il torneo australiano per incassi complessivi) che pure da un paio di lustri non smetteva di crescere e di offrire un montepremi più alto ai giocatori, sarà costretto a diventare un po’ più povero per fronteggiare una situazione eccezionale. Nel 2018 i profitti dell’Australian Open erano stati di 6 milioni, nel 2019 avevano sfiorato gli 11 milioni ma difficilmente il trend rimarrà positivo (per fare un confronto, Wimbledon genera un profitto di oltre 50 milioni a edizione). E ci sarà da stringere i denti anche nel prossimo quinquennio.